( è così lunga 'sta fic che non posso nemmeno postarla in un unico post sul mio livejournal.

intanto, rimarrà qui, poi vedrò che farne e mi deciderò anche a mettere tutti i warning del caso. per ora: #underage #agegap #threesome #dom/sub )

[ prompt rivelazione - 19.052w ]

 

The Wonderland Matrix parte prima

 

L'aveva trovata tra la spazzatura, come un giocattolo rotto buttato tra l'immondizia e la merda di ratto.
Lei lo aveva guardato da sotto una matassa stopposa di capelli color fango, con occhi troppo giovani e che troppo presto avevano conosciuto la paura. Si era spinta contro il bidone di ferro, immersa in quel puzzo di vomito che le si era ormai impregnato tra vestiti lerci e strappati e quando le sue mani l'avevano raggiunta, aveva cercato inutilmente di scacciarle. L'aveva colpito con una manata fatta di dita minuscole e ossicina fragili, non gli aveva neppure fatto il solletico, ma lui aveva comunque risposto con un ringhio rabbioso che aveva messo a tacere ogni suo gemito e l'aveva afferrata per le ascelle, strappandola alla strada.
Di quanto fosse piccola (troppo) per quella vita non gliel'aveva mai detto, ma lui non era il salvatore di nessuno e a lei – o a chiunque altro – non aveva mai dovuto un cazzo.
Se non fosse stato lui, se la sarebbe presa qualcun altro. Le avrebbero infilato un guinzaglio al collo e, magari, l'avrebbero usata come sollazzo per farsi succhiare l'uccello o ficcarglielo tra le cosce e scoparla finché non si fosse spezzata. Non che pareva ci volesse ancora molto, l'aveva raccattata che rotta, in fondo, lo era già, fatta in piccoli pezzi che a malapena le rimanevano addosso – una bambola a cui erano stati strappati gli arti – e minacciavano di crollare presto come un castello di stuzzicadenti calciato via.
Si poteva comunque dire che le avesse dato una casa e, in qualche modo malato e disperato come lo erano entrambi, in qualche modo perverso, anche una famiglia.
Nel momento in cui aveva chiuso la porta di casa dietro le loro spalle e l'aveva spinta sul piatto di ceramica della doccia, lei era diventata sua.

Il getto della doccia la colpiva con piccole stilettate di ghiaccio che le bucavano la pelle bianca. Rabbrividì, scattando indietro ad incollare la schiena nuda e sottile contro il vetro gelido del box doccia.
Lo scaldabagno doveva essersi rotta di nuovo.
«Merda» imprecò, stringendosi in un abbraccio.
Si affrettò a chiudere il rubinetto e, cercando di fare il più piano possibile, aprì il vano della doccia spiando verso la stanza illuminata male e poco da una lampada a neon che suo fratello aveva quasi mandato in pezzi la notte precedente.
Era tornato ubriaco, ancora attaccato alla bottiglia di una birra scadente che aveva tanto l'odore di piscio di gatto. L'ultima iniezione di Dreamez che si era sparato nel collo doveva ancora avere un qualche effetto, perché quando l'aveva vista non era stato in grado di riconoscerla o, forse, non si era posto il dubbio che fosse lei: l'aveva afferrata per i capelli e in uno strattone deciso l'aveva costretta in ginocchio, premendole la faccia contro il cavallo dei pantaloni, ordinandole di succhiarglielo.
Sotto i passi a piedi nudi si aprirono piccole pozze d'acqua fredda, impronte che segnavano il suo percorso attraverso il salotto.
La doccia era stata ricavata da un angolo dell'open space che comprendeva la postazione informatica di suo fratello (due monitor e un proiettore olografico a tutta parete, che appartenevano più a Julius che a lui) e la zona vera e propria del soggiorno.
Deglutì, quando, tra i cuscini del divano, scorse la curva ampia della schiena di suo fratello, i muscoli tesi e allenati dalla strada, il tatuaggio in bianco e nero di un coniglio dal teschio scoperto, che gli balzava sul collo e le cicatrici che ne marchiavano la pelle. Ce n'era una, sul lato della coscia destra, che gli aveva procurato lei – quando ancora era una bambina aveva affondato i dentelli di una forchetta nella carne, anche se non era riuscita ad andare particolarmente in profondità. Lui l'aveva colpita per lo shock, uno schiaffo in faccia così forte da buttarla in terra. Non l'aveva mai picchiata fino a quel momento e lei era rimasta immobile, con il volto rigato dalle lacrime e la bocca serrata, senza emettere fiato. Terrorizzata.
Lo scaldabagno era un modello vecchio, piccolo, che si rompeva spesso e volentieri e con cui aveva imparato a fare i conti un giorno sì e l'altro pure.
Avevano preso l'abitudine di lasciare una chiave inglese nelle vicinanze, insieme ad una seggiola sulla quale poteva arrampicarsi. Non era mai stata particolarmente alta. Da piccola era uno scricciolo con la pelle tirata sulle ossa e le guance scavate, crescendo, si era fatta più donna, ma non ci aveva mai guadagnato in altezza.
Afferrò la chiave inglese, salendo sulla sedia e tenendosi in punta di piedi, mentre cercava di stringere la solita valvola difettosa.
Gocce d'acqua continuavano a rotolarle giù per la pelle, tracciando scie trasparenti che le cospargevano di brividi l'intero corpo. I capelli erano sciolti, lunghi, biondi, con sfumature ramate e onde che raggiungevano i glutei sodi e rotondi. Le gambe snelle, la vita sottile; c'era una voglia sull'inguine destro, un piccolo quadrifoglio che era anche divenuto il suo nome
Clover, la chiamavano.
Batte un colpo contro la valvola, assicurandosi che la fiammella del gas si riaccendesse nel boiler. Con gli anni non era solo diventata più veloce, ma aveva anche imparato a rispondere ai colpi della vita, si era fatta più forte, anche se mai abbastanza. E, comunque, non più di Lucan.
Alle sue spalle, qualcuno grugnì uno sbadiglio uscito male.
Clover sobbalzò, rischiando quasi di perdere l'equilibrio e cadere dalla sedia.
Si voltò, tendendo un braccio tra le gambe e uno davanti al seno, in una copertura pudica che, sapeva, sarebbe durata poco.
Lucan si era svegliato. Aveva occhi castani, di doberman, che la fissavano con la stessa rabbia repressa di un cane addestrato a lottare.
«Quel fottuto rottame si è rotto ancora?»
La domanda uscì incrinata, un suono sporco, incatramato, che entrambi stentarono a riconoscere.
Clover annuì.
«Ora dovrebbe funzionare» aggiunse.
Sussultò, stringendo più forte l'abbraccio a se stessa, quando Lucan sollevò la mano in un gesto secco, per poi muoverla a farle segno di scendere dalla seggiola. L'uomo lasciò la mano tesa, l'invito (l'ordine implicito) ad afferrarla e quando lei la strinse, lo strattone la buttò giù dalla sedia, facendola cadere direttamente tra le braccia di Lucan.
La prese al volo, serrandola in un abbraccio deciso e piantandosela contro un petto duro come l'acciaio. Dell'acqua che bagnava lei e colò su di lui, non parve interessarsene.
«Ho bisogno di una doccia anche io» affermò. Nonostante la bocca secca, sentiva ancora sulla lingua il sapore acre di vomito e birra scadente che doveva essergli rimasto dalla notte appena passata.
Trascinò entrambi verso il vano doccia, percorrendo le impronte bagnate che gli rimasero impresse nella pianta dei piedi nudi. Teneva sua sorella con un braccio intorno alla vita, quasi sollevata contro di sé – lei era sempre stata piccola e fragile come una bambola, fin da bambina; in confronto, lui sembrava un fottuto gigante, un lupo mannaro pronto a sbranare il mondo.
La lasciò andare spingendola contro la parete piastrellata, così che nel piccolo box potessero starci entrambi.
Ruotò la manopola dell'acqua.
Il «Fanculo» si trasformò più che altro in un verso animale, quando il primo getto uscì gelido, colpendoli entrambi, per iniziare a farsi più caldo poco per volta.
Clover aveva incassato il collo sottile tra le spalle, piegando il capo in avanti, tremando per il freddo. Si piegò su di lei, offrendole le proprie spalle e la propria schiena come scudo e lei gli si spinse un po' più addosso, trovando rifugio contro il suo petto.
Addosso aveva ancora l'odore di sesso, birra e fumo, lo stesso che doveva essergli rimasto impregnato durante la notte, quando l'avevano buttato fuori dal Night. Non ne era certa, ma lo aveva immaginato, perché era così che succedeva spesso quando non c'era Julius a risolvere i casini di suo fratello.
Le mani di Lucan si posarono alla sua schiena. Sollevò gli occhi, azzardandosi a guardarlo tra la cascata di capelli biondi e rivoli d'acqua che le copriva il volto, in bilico tra l'istinto di allontanarsi e il bisogno, invece, di spingersi più vicino a lui.
Il loro rapporto era qualcosa di complicato.
«Stai ferma» la intimò Lucan.
Clover obbedì. Socchiuse gli occhi, sentendo le mani grandi dell'uomo scorrere in basso, raccoglierle i glutei e spingerla contro di sé, a far unire completamente i loro corpi.
Il membro di Lucan ciondolava tra le sue gambe, lei lo percepì premuto contro il proprio pube e si obbligò a tenere immobile ogni muscolo, a non respirare nemmeno finché Lucan non le avesse dato il permesso.
Poi le mani dell'uomo salirono ai suoi capelli. Recuperò il flacone dello shampoo e gliene versò un po' sulla cute, inondandoli entrambi del profumo dolciastro di mandorle, il preferito della ragazza.
Le lavò i capelli, massaggiandole la cute. Le tirò indietro la nuca, esponendo il collo liscio al proprio sguardo – alla silenziosa voglia di morderla, di azzannarla con tutta la propria forza e masticarne le carni finché non sarebbe rimasto più niente di lei – e ritrovando una macchia violacea a sporcare la pelle altrimenti bianca. Le coprì la fronte con una mano, per impedire allo shampoo di finirle negli occhi e, con l'altra, le risciacquò i capelli, delicato come non lo era stato la notte passata.
«Ti ho fatto male, sta notte?» domandò, con lo sguardo ancora fisso ai lividi che le imbrattavano il collo come un collare maculato.
Clover riaprì gli occhi uno alla volta, alzandoli sul volto squadrato e dalla mascella spigolosa del fratello.
«Non ricordi?»
«Non te l'avrei chiesto, altrimenti.»
Scrollò le spalle. Della notte precedente portava ancora tutti i segni sulla pelle; la stretta ai suoi capelli, quando l'aveva messa in ginocchio e aveva voluto che glielo succhiasse, le dita che le avevano stretto il collo quando non era riuscita ad ingoiare il suo seme e aveva tossito alla ricerca di ossigeno. Aveva stritolato la carotide e aveva continuato a farlo finché non aveva quasi perso i sensi.
«Non più del solito» rispose.
Lucan non si bevve la menzogna. La strinse per le spalle, strattonandola indietro.
«Cazzo, Clò, ti ho già detto cosa fare quando capita. Il coltello è nel cassetto e se hai paura di usarlo, prepara una siringa o spaccami una bottiglia in testa.»
Clover si aggrappò ai bicipiti di Lucan.
«Non è durato tanto, sei svenuto quasi subito.»
Non ricordava, in realtà, quanto fosse durato. Pochi minuti, forse, anche se le era sembrato un'eternità quando lui le aveva riempito la bocca della sua erezione e aveva continuato a spingersi e a scoparla senza tregua, gemendo roco e continuando a ordinarle di succhiarlo più forte, di non smettere, che stava andando bene, che era la sua brava puttana.
Clover aveva obbedito – obbediva sempre quando si trattava di suo fratello, come se la sua stessa esistenza dipendesse da lui – aveva spalancato la bocca per accoglierlo tutto, aveva gemuto e gorgogliato quando la punta del glande aveva strofinato contro le tonsille e si era fatta strada in gola, soffocandola per riversarle il seme caldo. Era stato come affogare, respirare le era stato impossibile e lui le era venuto in bocca senza preavviso, l'aveva tenuta con la faccia schiacciata al proprio pube.
Non era stata la prima volta ed ogni volta Lucan le ripeteva le stesse cose. Colpiscimi, impediscimi di farti del male. E ogni volta Clover glielo prometteva, anche se sapeva che sarebbe riaccaduto e forse, una parte di lei, aspettava con impazienza di venir trascinata in ginocchio tra le sue gambe e usata come il suo giocattolo sessuale.
«Cristo. Non dovrebbe succedere e basta... te lo giuro, non berrò più a quel modo... davvero» e forse, da qualche parte nel profondo di un'anima tormentata e disturbata, lo aspettava anche lui, perché non aveva mai tenuto fede alla sua promessa.
La strinse contro di sé e le posò un bacio tra i capelli.
Clover ricambiò l'abbraccio, le braccia così sottili intorno ai fianchi forti di Lucan che quasi sembravano non esserci, mentre i loro corpi nudi si premevano l'uno contro l'altra, in un'intimità che andava oltre al rapporto fraterno.
Lui le sollevò il volto, per posare un bacio casto sulle sue labbra carnose e Clover sospirò piano, sfarfallando le ciglia lunghe in cui gocce d'acqua si incastravano e rotolavano giù, seguendo gli zigomi e l'ovale delicato del volto da bambola. L'aveva raccolta dalla strada, tra i bidoni dell'immondizia, quando non era che una bambina pelle e ossa; non avevano un legame di sangue, ma da allora lei era diventata la sua famiglia e lui quella di Clover e a modo suo (forse malato, forse sporco e violento) la amava più di qualsiasi altra cosa al mondo.

«Cazzo. Cazzo. Cazzo.»
Il sangue gli imbrattava la giacca e colava da dentro la manica, in scie cremisi che avevano continuato a rigargli il braccio, gocciolando sino a terra. Lo straccio che aveva continuato a premersi contro la ferita (una coltellata, lama seghettata, tre fottuti centimetri, e quel figlio di puttana che lo aveva colpito doveva averla imbevuta di Serpico) era imbevuto del suo sangue e, mettendoci anche quello che aveva perso per strada, se non l'avesse ucciso il veleno, di certo sarebbe crepato dissanguato a breve.
«Cazzo.»
Aveva la vista appannata, ormai non vedeva più nemmeno dove stava mettendo i piedi. Avanzava affidandosi alla memoria, lasciando che l'istinto, i suoni familiari e i profumi della strada lo guidassero verso quella che Lucan chiamava casa. Lui, invece, aveva iniziato a chiamarla la tana del bianconiglio, almeno da quando quel gigante non era tornato a casa con una Alice dai biondi capelli sporchi di fango e gli occhi azzurri sporchi di vita.
Ritrovò a tentoni la porta rinforzata, nascosta tra i vicoli sudici dei sobborghi di Rotten Apple.
Si appese malamente al tastierino per l'identificazione del codice, mimetizzato da citofono rotto. Ebbe appena la forza di schiacciare i primi pulsanti del proprio codice (LUCK1S3V3N-777) prima di accasciarsi a terra, in una pozza di sangue.

A doccia finita, Lucan si era finalmente levato di dosso il puzzo di sesso e alcol e, in cucina, aveva spazzolato tutto quello che di commestibile era riuscito a trovare nel frigorifero, compresa l'ultima fetta di una torta di compleanno ormai possa avvolta nella carta stagnola e prenotata da un biglietto che recitava "Crepate di fame, questa è di Julius".
Ovviamente il biglietto non era servito a molto – non serviva mai. Più di una volta, infatti, Julius si era rivolto a Lucan chiamandolo fogna e l'altro aveva tenuto fede a quel soprannome, continuando a mangiare roba che non gli apparteneva.
Clover aveva indossato una camicia del fratello. Larga e troppo lunga le faceva da abito e il cotone ruvido e sgualcito lungo i bordi arrivava a coprirle le cosce, sino alle ginocchia. Aveva raccolto i capelli in una treccia morbida, che le scivolava sulla spalla destra e aveva iniziato a risistemare l'unico letto dell'unica stanza della casa. Era un letto king-size che, il più delle volte, ospitava tutti e tre i padroni di casa; questa volta però non ci aveva messo molto, Lucan aveva dormito sul divano, lei gli era rimasta accanto e Julius, invece, non sembrava essere tornato a casa quella notte.
Il pensiero di dove potesse essere l'uomo si interruppe quando il suono dell'allarme risuonò, partendo dalla zona dei computer.
Uscì di corsa dalla stanza, per trovare Lucan già piegato con le mani sulla scrivania, ad osservare il monitor e il video delle telecamere a circuito chiuso, nascoste fuori dal loro ingresso.
Un corpo senza sensi era accasciato nel vicolo, tra le immagini buie che la telecamera riportava di quel punto, era possibile scorgere la pozza di sangue aperta sotto di esso e capelli scuri che nascondevano e imbrattavano il volto.
Lucas batté un pugno alla scrivania.
«Cazzo, Julius»
Con uno scatto, si precipitò fuori.

Julius non amava i guai, ma loro, a quanto pareva, riuscivano sempre a trovare il modo per seguirlo. Lo avevano stanato quando qualche anno fa gli era stato ordinato di spezzare le gambe all'uomo sbagliato, lo avevano stanato quando quell'uomo lo aveva appeso al muro, quando per qualche ragione (che conosceva benissimo, ma a cui preferiva non pensare) lo aveva risparmiato e lo avevano stanato la notte prima, quando gli uomini di Royal l'avevano beccato sotto il balcone di Isabel, a guardare crescere sua figlia da una finestra, come uno spettatore in una sala da cinema.
Ora galleggiava in uno spazio completamente nero. Alle volte la coscienza riemergeva, gli occhi si aprivano, ma la luce li feriva sempre e quel poco che il cervello recepiva non era sufficiente a fargli capire cosa stesse succedendo. Dove fosse. Con chi. Aveva visto un volto sfocato, aveva visto lame negli occhi o occhi come lame, siringhe, tamponi, una bocca rossa e carnosa e neve a fiocchi.
Aveva capito subito che la neve era un'allucinazione perché gli succedeva spesso. E a Rotten Apple non nevicava più dalla costruzione della cupola. L'ultima volta che aveva visto la neve era ancora insieme ad Isabel e lei girava su se stessa, ridendo candida come una rosa. Il suo piccolo folletto.
«Starai bene, vedrai, andrà tutto bene.»
Qualcuno gli aveva stretto una mano e gli parlava contro l'orecchio.
Poteva trattarsi di Clover. Quel bastardo di Lucan se la tirava troppo per abbassarsi a rassicurare i poveri senzacarne come lui.
Abbozzò un sorriso, cercando di mettere a fuoco il volto della ragazza, ma tutto quello che riuscì a vedere fu una macchia rosa e gialla, finché uno sfondo nero non ingoiò di nuovo colori e immagini.

Erano passate più di ventiquattr'ore.
Nessuno dei due si era allontanato per più di qualche minuto dal corpo di Julius, se non per raggiungere il minimarket aperto 24h al giorno e comprare qualcosa da mangiare.
L'avevano sdraiato sul letto, sul lato sinistro, vicino alla sbarra di una flebo che aveva centellinato fisiologica nel braccio dell'uomo per tutto il tempo, mescolata a qualche farmaco che, qualche mese prima, Lucan aveva recuperato dal mercato nero.
Qualche stronzo aveva cercato di fregarlo in un affare. Non era andato molto lontano e di quel povero cane bastardo era rimasto così poco sull'asfalto che non sarebbe bastato nemmeno per un'identificazione. A quel punto, per sopperire l'affare mandato a puttane, a Lucan era sembrato equo prendersi la scorta di Dreamez e farmaci che gli aveva trovato nel cofano dell'auto, roba di ottima qualità che quasi sicuramente proveniva da una qualche clinica privata.
Usarli su Julius era stato un fottuto spreco; quando l'uomo si fosse svegliato, avrebbe colto l'occasione per farglielo sapere.
Non dovette attendere molto.
Con un gemito dolorante, Julius iniziò a muoversi tra le coperte. Le labbra si schiusero a tastare la consistenza dell'aria, secche, assetate, sul palato era rimasto un sapore vagamente ferroso, sapore di ruggine. Gli occhi, ancora annebbiati di stanchezza e antidolorifici si aprirono, ruotando piano intorno alla stanza.
Clover si era alzata per prima. Aveva abbandonato la seggiola accanto al letto, da cui lo aveva vegliato insieme a suo fratello, e si era tesa sull'uomo semi cosciente, poggiando le mani al materasso.
«Julius?» lo chiamò.
Julius annaspò per qualche secondo, riprendendo confidenza con polmoni che bruciavano come l'inferno.
«Ehy...» mormorò debolmente.
«Come ti senti?»
«A... as... assetato...» riuscì a dire a malapena.
Lei sorrise. Prese la bottiglietta d'acqua che avevano lasciato sul comodino e la svitò. Lucan aiutò l'uomo a tenere il capo sollevato, mentre la ragazza avvicinava la bottiglietta alle sue labbra screpolate, lasciando scivolare le prime gocce d'acqua che gli bagnarono piacevolmente la lingua. Il primo sorso, tuttavia, gli andò per traverso.
Clover allontanò la bottiglietta.
Lucan lo tenne per le spalle, mentre Julius tossiva.
«Piano» gli ordinò sintetico, in un suono più simile a un ringhio rabbioso.
Julius gli fece il verso, pronto a ritentare con un altro sorso. Andò meglio e quando ebbe bevuto, fece cenno all'altro di lasciarlo sdraiare di nuovo tra le coperte.
Non era morto, di questo poteva gioire. Ma non lo si poteva nemmeno definire sano – quello, in effetti, non era più uno stato a cui potesse anelare.
«Che è successo?» gli chiese Lucan. Non era tipo che amava perdere tempo lui, non sapeva come indorare la pillola e preferiva sempre andare dritto al punto, generalmente con un pugno in faccia o una pallottola tra gli occhi. Julius aveva avuto la sua buona dose di entrambi, per ora, quindi, era ben felice che si trattasse solo di domande.
«Royal» mormorò a stento e a mezza bocca, sentendo la gola grattare.
Non pensava di essere stato ridotto così male. Non c'era punto del corpo che non gli facesse male e l'intero braccio sinistro, così come l'orecchio e la parte sinistra del volto, avevano smesso completamente di rispondere agli impulsi del cervello. Erano spenti, ogni collegamento neuronale tra latta e carne vera mandato in tilt a causa di quel veleno merdoso che era serpico. Agiva più in fretta sui senzacarne.
«Come cazzo ha fatto a trovarti?»
Lucan aveva stretto i pugni. Il nome di Royal gli portava alla mente orribili ricordi e una rabbia che già troppo spesso non era in grado di arginare.
«Non... non lo so... ma... ero andato a visitare... Isabel... è stato allora... che mi hanno... attaccato...»
«Vuoi dire che?»
«No... Li ho... ammazzati tutti... avranno ben poco da raccontargli...»
«Cosa volevano?»
Julius sbuffò una mezza risata che gli costò una scarica di colpi di tosse dolorosa, che gli schiacciarono il petto, sgonfiandogli violentemente i polmoni. Ci volle qualche minuto perché riuscisse a calmarsi e, alla fine, gli occhi si posarono su Clover, come se in lei fosse stata racchiusa ogni risposta.
La ragazza si strinse nelle spalle, senza parlare.
Non c'era stato nessun reale bisogno di porre la domanda. Sapevano tutti e tre che Royal desiderava una cosa sola da loro (Royal, il Santuario e chissà quanti altri).
Lucan grugnì un insulto, allargò il braccio ad afferrare le spalle della ragazza e se la tirò in grembo, contro di sé, in un gesto rude e possessivo.
Julius abbozzò un sorriso più debole.
«Non torneranno... tanto presto...» li rassicurò.
«Ma nemmeno smetteranno di provarci...»
Entrambi spostarono l'attenzione su Clover. Lei aveva distolto lo sguardo e le parole le erano scivolate oltre le labbra quasi da sole.
Lucan la strinse più forte, quasi con violenza.
«E tu lasciali provare» ruggì.
Clover, allora, non parlo più.

«Sei sicura di sapere cosa stai facendo? Non voglio finire coi circuiti fritti, lo sai?»
Julius si era ripreso bene, se non si calcolavano le parti meccaniche ancora in panne.
Clover sorrise. Accomodata alla poltrona nella zona dei pc, teneva tra le mani un saldatore e sul monitor olografico era riportato l'arto danneggiato dell'uomo.
«Sicurissima» gli rispose.
Julius deglutì.
«L'ultima volta che hai provato a potenziarmi il braccio, però, non è andata così bene.»
«Tu hai insistito per collaudare quel nano-chip, io, se ben ricordi, ti avevo detto che non era compatibile e nemmeno così ben costruito.»
«Certo, diamo la colpa al senzacarne» borbottò.
Clover sollevò la testa e dovette tirarla in parte indietro, per riuscire a guardarlo in volto. C'erano ingranaggi argentati rimasti immobili sul lato sinistro del volto, dove la carne si era deteriorata e aveva scoperto ossa ricostruite in fibra di carbonio – il muso stilizzato di un gatto allampanato che ghignava a zanne scoperte era stato inciso sugli ingranaggi che componevano lo zigomo, quasi un marchio di fabbrica.
Era accaduti a tutti quelli che si erano trovati troppo vicini alla cupola quando il governo aveva dato l'ok finale e, con un'esplosione magnetica, era stata eretta. Chiunque si trovasse a tre chilometri da essa e non era morto per le radiazioni o per l'esplosione, si era ritrovato a pezzi, arti che cadevano come pezzi di pongo.
L'unica fortuna di Julius era il fatto che fosse bravo, maledettamente bravo nel suo lavoro e le persone per cui lavorava non avevano voluto perderlo. Gli avevano pagato l'operazione, l'upgrade e il degrado del suo corpo si era fermato, cortesia di Gustav Royal.
Tradirlo per unirsi a Lucan non era stata una mossa felice. Sua moglie lo odiava già (e ne aveva tutte le ragioni, era uno stronzo, andava a puttane e non ricordava più nemmeno quando fosse stata l'ultima volta in cui le aveva fatto un regalo o le aveva detto ti amo, non ricordava in effetti più se l'avesse mai amata), ma aveva dovuto abbandonare sua figlia, la sua bambina.
Poi era arrivato quel piccolo quadrifoglio portafortuna e anche per lui, come per Lucan, non era più importato nulla se non proteggerla.
Clover aggrottò la fronte, arricciando le labbra in quel modo adorabile che la faceva sembrare ancora bambina. Non che fosse poi più grande, era ancora un'adolescente, una ragazzina che il mondo aveva fatto crescere in fretta.
«Non mi piace quando usi quella parola» lo rimbeccò.
«Non è che non lo sia.»
«Non significa nemmeno che tu sia solo quello.»
Julius sorrise.
Era poca, rara, la gente che non vedeva nei senzacarne dei derelitti dell'umanità, dei mostri da lasciare a loro stessi e alla loro miseria, perché il loro posto era tra la polvere e la cenere. Il loro posto era sotto terra o nei laboratori della Yaku corp, a far da cavie.
Le sfiorò la guancia con le dita della mano destra. Quella vera, che ancora manteneva il calore di quando era stato un uomo fatto e finito per intero e non una mezza lattina ambulante che per metà sembrava l'interno di un orologio.
Sedeva sul tavolo e dovette piegarsi in avanti per raggiungere il volto di lei. Posò un bacio alle sue labbra, un tocco casto, leggero, un bacio gentile per cui Lucan gli avrebbe comunque spaccato la faccia, ma che comunque continuava a concedersi in sua assenza. E fanculo alla regola "puoi toccarla solo quando ci sono io".
Sapeva che Clover apparteneva a Lucan, ma un po' era anche sua.
Quando sciolse il bacio, Clover lo guardo con finto rimprovero negli occhi azzurri.
«Oh, tanto lo sa che quando non c'è faccio lo stesso il cazzo che voglio!» sbottò lui, leggendo perfettamente il riferimento all'assenza di Lucan «A proposito, dov'è finito?»
«Ha detto che doveva occuparsi di un affare alla baia. Ma quando ho controllato il tracer un'ora fa, ho visto che si trovava nella Città Nuova. Penso sia andato a controllare che nessuno degli uomini di Royal possa trovare tracce di Isabel.»
Julius trattenne il respiro per tutta la durata della sua frase, sentendo un peso che veniva e, immediatamente dopo, se ne andava, grato che l'amico si fosse preoccupato di tenere in salvo sua figlia.
Poi un dettaglio gli balenò alla testa.
«Uhuuu, sei riuscita a mettergli addosso un tracer?»
«Me l'hai insegnato tu come fare» lo disse con una punta d'orgoglio, lo stesso che si riflesse negli occhi scuri dell'uomo.
«A questo punto credo che mi fiderò anche di farti fare il reload. Non deludermi, kiddo
«Quando mai l'ho fatto.»
Clover gli mostrò la lingua e Julius rise.

Julius aveva fatto un buon lavoro. Si era sbarazzato dei corpi e non ne aveva lasciato nemmeno le ossa. Tutto ciò di cui ci si sarebbe dovuti aspettare dall'ex Peacemaker al soldo di Royal. Non c'era niente che i pacificatori non riuscissero a risolvere, eliminare, cancellare dalla faccia della terra – tutto pur di mantenere la tranquillità nelle Cupole.
Lucan fece un tiro dalla sigaretta, prima di buttarla in terra, spegnendola sotto il tacco dello stivale. Diede un'ultima occhiata verso l'edificio di nuova costruzione – come la maggior parte delle case e dei grattacieli che erano stati costruiti nella zona ricca di Città Nuova, il torsolo di Rotten Apple – scorgendo la finestra che, era certo, doveva essere una di quelle dell'appartamento in cui Isabel viveva da qualche anno a quella parte.
Si assicurò che non ci fossero problemi di sorta e diede le spalle alla zona, troppo fancy e troppo di lusso per uno come lui.
Il soprabito gli svolazzò alle spalle, sbattacchiando contro gambe lunghe, fasciate da un paio di jeans neri e strette alla vita da una cintura da cui penzolavano una coppia di pistole a canna larga, due tranciamostri costruite su misura. C'era chi aveva il sarto personale, lui, invece, aveva Trixie, rigattiere ed esperta di armi ed esplosivi.
Infilò il casco integrale e salì sulla moto parcheggiata a qualche isolato da lì. Si era assicurato che nessuno lo seguisse, ma non si era mai abbastanza prudenti, non quando c'era una taglia di qualche centinaia di migliaia di dollari sulla sua testa e i galoppini di Royal non vedevano l'ora di mettere le mani su di lui.
E se non era Royal, allora si trattava del Santuario. In ogni caso aveva più nemici che amici.
Lontano dalla Città Nuova dove la luce brillava anche di notte, i quartieri erano puliti e le pattuglie si assicuravano di mantenere la tranquillità nelle vie, le strade si facevano buie e sporche, puzzavano di fumo e merda, sotto i pochi lampioni si trovavano puttane o qualche faccia di cazzo pronto a vendere un po' di dreamez o a derubare gli imbecilli che si fermavano senza avere l'arma carica.
Lucan parcheggiò in un vicolo buio, dove l'unica luce apparteneva all'insegna al neon di un vecchio negozietto dalla saracinesca ancora alzata.
Accanto alla porta, sopra il pulsante del citofono si trovava l'occhio di una telecamera. Suonò, fissando la telecamera con una smorfia annoiata.
«Sei ancora vivo coniglietto!» esclamò una voce attraverso il citofono. La nota metallizzata non nascondeva il fatto che dovesse appartenere ad una donna, forse di una cinquantina d'anni.
Lucan storse il naso, l'irritazione tenuta a stento a bado già danzava tra le tempie, infastidito dal soprannome.
«Vuoi farmi entrare Trixie o mi tocca parlare a quest'affare?»
La risata si spezzò a causa della mala ricezione, qualche filo conduttore doveva essere partito e tranciava malamente ogni frase.
«Entra, dai.»
La porta si aprì. Lucan, però, attese qualche istante in più. Con un'occhiata perimetrò il rettangolo della porta, là dove i fori dei raggi infrarossi si erano spenti, concedendo effettivamente l'accesso al negozio.
Quando entrò, la donna che lo aveva accolta al citofono, si fece avanti imbracciando un fucile. Era alta, dalle forme prorompenti e nulla aveva da invidiare alle donne più giovani.
I capelli erano riccioli neri, raccolti in una crocchia sulla nuca da qui qualche ciuffo sfuggiva incorniciando il volo. Sulla guancia e vicino all'orecchio destro, spiccava il tatuaggio dell'Asilum TenSix, un gruppo di teste calde che combatteva contro le leggi e la crudeltà del Santuario, seguendo soltanto le proprie di leggi.
Lucan sollevò le braccia, mostrando le mani vuote.
«È un piacere vederti» borbottò, sarcastico.
Trixie avanzò tenendolo sotto tiro con il fucile.
«Non posso dire lo stesso. Quando ci sei di mezzo tu, c'è sempre qualche guaio e non è mai nulla di piacevole» tenne sollevato il fucile con una mano e con l'altra afferrò le pistole dell'uomo, sfilandole entrambe dalle sue fondine, per disarmarlo.
Lucan non fece nulla per impedirglielo ma, quando l'altra ebbe finita, riabbassò le braccia lungo i fianchi, cercando dalle tasche del soprabito il pacchetto di sigarette, per accendersene una e piazzarla tra le labbra.
«Questa volta non c'entro io.»
«C'entri sempre tu, anche quando non sembra.»
Lucan abbozzò un sorriso che uscì male, tratteggiando una smorfia storta e incattivita intorno al filtro della sigaretta.
«Voglio solo informazioni. Me le dai, te le pago e mi levo dai coglioni. Tutti felici» tirò una seconda boccata, ruotando il capo di lato, per soffiare il fumo lontano dalla faccia di Trixie, mantenendo la visuale libera su di lei.
Non temeva il suo fucile e il fatto che si fosse presa le proprie armi era solo una noiosa formalità a cui andavano in contro tutte le fottute volte. Gliele avrebbe ridate, di solito accadeva dopo qualche ramanzina non richiesta. Questa volta sperò ci volesse meno.
«Gli uomini di Royal hanno attaccato Julius.»
La donna sgranò gli occhi. Dopo qualche attimo di smarrimento, l'espressione cambiò e, da diffidente, si fece preoccupata, spiaciuta perfino. Sospirò e posò entrambe le pistole sul bancone del negozio, mettendo via il fucile.
«Cristo, coniglietto...»
«Puoi farla finita con quel soprannome del cazzo?»
«E voi, invece, quando la finirete di sfidare gente come Royal?»
«Senti chi parla.»
Lucan indicò con un cenno del mento il tatuaggio sul volto della donna.
Trixie lo sfiorò con la punta delle dita, sorridendo amaramente.
«Questa è una storia vecchia. Ed era comunque per una causa giusta.»
Lucan inarcò un sopracciglio, raggiungendo il bancone in un paio di ampie falcate.
«Questa non lo è, invece? Royal è il porco bastardo che ci ha chiuso tutti in queste cupole di merda. Ha inondato quella di Anghelos con veleno per topi solo per testarne l'efficacia e, come non bastasse, ha il culo coperto dal Santuario.»
«Lo sai cosa voglio dire.»
«Fanculo Trix, dimmi solo se hai sentito qualcosa per le strade o nella blacknet
Trixie prese posto dietro al bancone. Per lo più erano esposte armi di vario tipo, ma, sotto un vetro rinforzato e antri-proiettile era possibile trovare qualche rarità che non si trovava sul mercato.
Lucan guardò oltre il vetro del bancone, accanto ad una vecchia Colt e un coltello militare, si trovava una scatoletta di latta. Aveva un aspetto banale, vecchio, arrugginito, nulla che potesse c'entrare con tutto il resto.
Trixie seguì il suo sguardo e sorrise quando notò ciò su cui l'uomo si era soffermato.
Sorvolò per il momento, per continuare sul discorso già iniziato.
«Quello che si dice nel black-net lo sai anche tu. La Regina sta tornando, per questo gli uomini di Royal sono così impazienti di trovare il quadrifoglio. E che tu e Lucky boy sappiate dove si trova è ormai una notizia che ha fatto il giro dei quattro cantoni da una vita.»
«Merda.»
«Non mi hai mai detto che cos'è. È la chiave d'accesso per un god program, non è vero?» Trixie posò le mani al bancone, reclinandosi in avanti per chiederglielo in un sussurro basso, che rimanesse tra loro soltanto.
Lucan si tirò indietro, senza rispondere.
I god program erano intelligenze superiori, macchine evolute che si erano ribellate al loro stesso creatore per prendere pieno possesso della propria esistenza e dominare sull'essere umano. In quanto macchina non possedeva alcun sentimento, uccideva, distruggeva, tutto ciò che riteneva inutile o che osava mettersi sulla sua strada.
Nessuno sapeva quanti fossero, ma era certo che uno di essi si celasse dietro King, il fondatore del Santuario.
Con la nascita del Santuario e l'ascesa di King, tuttavia, era nato anche il gruppo degli Asilum TenSix. Si era formato direttamente nei bassifondi Rotten Apple, capitanato da Jacob X, in opposizione alla tirannia del Santuario. Inoltre, sebbene non era chiaro da dove fosse arrivata, in quello stesso periodo iniziò a tramandarsi la leggenda su un god program con sentimenti umani, in grado di provare compassione. Si diceva ci fosse un glitch nella sua programmazione, una linea di codice chiamata Linea della Vita che riportava il segreto della sua umanità. Invece di uccidere il suo creatore, il god program lo aveva protetto dagli altri, gli aveva salvato la vita e aveva distrutto i fratelli che avevano voluto la testa dell'uomo. Infine aveva promesso che, alla morte naturale di lui, sarebbe tornata per finire ciò che aveva iniziato a distruggere tutti quei god programs che avevano tradito loro padre.
Quel god program prese il nome de La Regina di cuori.
Informatici, ingegneri e haker di tutto il mondo avevano cercato di scoprire il segreto della Linea della Vita, nessuno era riuscito a ricreare il codice che, affinché non fosse trovato e corrotto da King e da altri come lui, nascose in un campo di quadrifogli.
«D'accordo, non dirmi niente, tanto ormai ci sono abituata. Ma sappi che sei più carino quando collabori, Lucan.»
«Me lo ricorderò.»
«In ogni caso, al tuo posto terrei d'occhio le due Torri del Millennio. C'è stato un incremento di energia negli ultimi piani che ha succhiato watt dagli edifici circostanti e perfino King non ha più osato avvicinarsi. Se tanto mi dà tanto, Royal sta preparando un'arma che possa mettere KO perfino un god program e da quando le voci sulla Regina si sono fatte più insistenti, la sicurezza intorno alle Torri è aumentata e la manodopera raddoppiata.»
Lucan annuì. Infilò una mano in tasca e sbatté sul bancone una banconota da cinquanta dollari.
«Grazie, Trixie.»
Quando, però, la donna fece per recuperarla, le dita dell'uomo la tirarono verso di sé e piegò la schiena in avanti, poggiando il gomito sul vetro del bancone per picchiettare all'indirizzo della scatoletta di latta. C'era un disegno in soprarilievo, la sagoma stilizzata di un gatto nero dallo stravagante ghigno scoperto.
«Che cos'è?»
E quando Trixie glielo disse, Lucan si chiese come avesse fatto a non capirlo subito.
«Figlio di puttana.»

Julius tirò indietro il gomito sinistro, strinse dita di metallo in un ronzio di ingranaggi e pistoni e caricò un pugno, colpendo il vuoto davanti a sé.
«Visto? Ti avevo detto che saresti tornato come nuovo» chiocciò Clover, che, dalla scrivania, lo guardava con un sorriso morbido e iniziava a risistemare gli attrezzi.
«Prometto di non dubitare più.»
Si stiracchiò le braccia, ridacchiando, finalmente tornato pienamente in possesso della mobilità di tutti i suoi arti. La lingua assaggiò le labbra, sollevandosi verso la sinistra per sporgersi in una leccata oscena che con la punta saggiava l'incrocio del metallo.
«Ti prego, Julius, mi fai senso quando fai così!»
«Così come?» con un ghigno, Julius allungò di nuovo la lingua.
«Sei disgustoso.»
Decisamente tutto come prima.
Poi, tutto d'un tratto, la porta d'ingresso si aprì con violenza, il flash di una bomba abbagliante detonò prima ancora che potesse gettarsi a coprire Clover col proprio corpo e la canna rettangolare di una dozzina di fucili d'assalto K-BULLS puntarono su di loro, pronti al colpo.
Nessuno dei due ebbe il tempo di opporsi, quattro uomini ben piazzati, con la faccia imbrattata da una pittura verde e nera, piombarono su di loro. Esperti, addestramento militare, erano troppi perché Julius potesse avere una qualche chance, lo immobilizzarono in pochi minuti e, con lui, portarono via anche Clover.

Lucan aveva accelerato la moto fino al limite, sfrecciando per le strade come una saetta nera.
Una volta svoltato nel vicolo davanti al proprio appartamento, era balzato giù dalla sella, senza nemmeno preoccuparsi di parcheggiarla o nasconderla. Si era precipitato alla porta e aveva scoperto la pulsantiera smontata, i fili scoperti che non avevano permesso all'allarme di scattare.
«Merda!» imprecò, lanciandosi sul corridoio asettico – lungo, stretto, dall'illuminazione verdastra, come l'interno di una rana – e poi oltre la porta dell'appartamento vero e proprio. La trovo spalancata, i cardini piegati e, all'interno, un silenzio surreale.
«Cazzo!»
Gli era bastato una prima occhiata per realizzare che Clover e Julius non si trovavano più lì da un pezzo, ma li chiamò lo stesso, attraversando con falcate pesanti e nervose l'intero open space, cercandoli anche nella stanza da letto.
«Clover?! Julius?!» li chiamò a gran voce, più e più volte, ma ogni volta a rispondergli c'era solo un silenzio pesante e il ronzio delle ventole del pc ancora acceso.
«Clover!» ritentò di nuovo, spalancando le ante dell'armadio che avevano in camera e che ospitava gli abiti di tutti e tre. Era stato riordinato da poco dalla ragazza, ma di lei, nessuna traccia.
«Cazzo! CLOVER!» gridò con tutto il fiato che aveva in gola e quando non gli rimase più nemmeno una goccia d'ossigeno, schiantò il pugno contro l'anta, sfondandola.

Aveva rovesciato i mobili e presi a pugni le pareti. Le nocche delle mani erano entrambe scorticate e il petto gli bruciava quanto la gola, seccata per le grida a cui si era abbandonato, abbandonandosi alla rabbia, cieco, pazzo, furioso.
Lucan si lasciò cadere inginocchiato al centro del salotto, il capo chino e la bocca spalancata a raccogliere grosse boccate d'ossigeno che sembrava essere sparito dall'intero appartamento.
Chiuse gli occhi, raccogliendosi la testa tra le mani.
L'avevano presa. L'avevano presa e lui non aveva fatto niente per impedirlo. E ora non riusciva a pensare a null'altro se non a tutto quello che avrebbero potuto farle.
Cercò di riprendere fiato, rovesciando la testa all'indietro.
I monitor e i pc si erano salvati per miracolo dalla sua ira, tremando d'odio era riuscito a recuperare il video della sorveglianza e mostrare sul monitor l'arrivo di una dozzina di uomini che non aveva riconosciuto ed ora, da terra, continuava a riguardarli, mentre accerchiavano Clovere e sbattevano Julius al muro.
Un leggerissimo bip si insinuò nelle pause tra una sfiatata pesante e l'altra.
Lucan aggrottò la fronte.
Bip.
Non l'aveva immaginato.
Guardò nuovamente lo schermo. Un puntino minuscolo, violaceo, lampeggiava sull'angolo.
Strizzò gli occhi, rendendosi conto che non si trattava di un puntino vero e proprio.
«Figlio di...»
Facendo pressione con la mano destra sul proprio ginocchio, si diede slancio, per sollevarsi in piedi e si precipitò al monitor.
Il simbolino violaceo di un muso di gatto stilizzato lampeggiava nel programma di tracciamento rimasto in background e, come quando lo aveva visto impresso sulla scatola di latta, da Trixie, Lucan lo riconobbe immediatamente.

Clover urlò per il dolore premendosi tra le dita della sinistra la mano dolorante.
Davanti a lei, uno degli uomini che avevano rapito lei e Julius si premeva con entrambe le mani il naso appena rotto.
«Porca troia, mi hai rotto il naso!» urlò l'uomo, la voce dal timbro ancora giovane. Aveva occhi intensi e verdi come prati di campo che spiccavano sulla pelle scura, di bronzo, iscurita maggiormente dalla pittura che gli imbrattava il volto.
Qualcuno rise, sullo sfondo di quello che sembrava essere un vecchio hangar militare, ricavato sotto terra, qualcun altro, invece, si avvicinò a passo sicuro.
Clover si voltò per fronteggiare anche lui.
A differenza di quelli che l'avevano presa, il volto non era dipinto e c'era una ragnatela di rughe a circondargli lo sguardo e ad invecchiarlo, dandogli più anni di quelli che effettivamente doveva avere. I capelli erano corti, brizzolati e al collo pendevano piastrine militari.
«Ho già rotto il naso al tuo amico, posso romperlo anche a te!» esclamò Clover, sollevando i pugni in posizione da difesa. Aveva ingoiato la paura e, nonostante le gambe le tremassero, era decisa a dar fondo a tutto quello che Lucan le aveva insegnato.
Colpisci duro. Ingoia la paura e colpisci. Le aveva detto, mentre la allenava e le sistemava la posizione delle gambe e delle braccia, ancora (colpisci!) e ancora (colpisci!) e ancora (colpisci!), finché il suo corpo non l'aveva imparato a memoria.
«Non ne ho dubbi, signorina, ma se potesse mettere giù quelle armi improprie...» con un ghigno, l'uomo si riferì ai pugni di lei, troppo piccoli in realtà perché potesse considerarli una minaccia.
Clover, però, serrò i denti, si piegò sulle gambe e caricò a testa bassa, come un mulo che non guarda dove andare.
«Sul serio?» ridacchiò l'uomo, già pronto a tendere le braccia per fermarla alle spalle. Quando, però, lei gli fu abbastanza vicino, carico il pugno verso l'alto in un montante che cozzò doloroso (per entrambi) contro la sua mascella, rovesciando l'uomo a terra per lo stupore.
Le risate sullo sfondo tacquero subito.
«Voglio vedere Julius! E voglio ritornare a casa! Immediatamente!» ordinò in un'esplosione di adrenalina e coraggio che le rendevano il fiato corto e il petto pesante.
Poteva farcela. Poteva sopravvivere. Lucan le aveva insegnato bene.
Poteva...
«Ah! No! Lasciami! Lasciami! Lasciami!» scalciò quando due braccia muscolose le circondarono la vita e le bloccarono i polsi contro la propria spalla.
Il giovane che aveva colpito per primo si era ripreso e la teneva stretta, in una presa virile che non le dava alcuna possibilità di fuga, mentre Clover si dimenava, agitando le gambe a calciare l'aria e tentando invano di liberarsi dalla presa.
«Wo e fermati, ragazzina!»
«Lasciatemi! Julius! Lucan!»
«Porca troia, la vuoi finire di agitarti tanto?»
«Tyron, puoi lasciarla»
«Eh?»
Il giovane chiamato Tyron guardò l'uomo brizzolato. L'altro si era rialzato e si stava massaggiando la mascella dolorante.
Tirò un'occhiata a Tyron e una a Clover.
«Lasciala» ripeté.
Tyron la lasciò con cautela.
Non appena si ritrovò con i piedi per terra, Clover scattò di lato, allontanandosi velocemente da entrambi e massaggiandosi i polsi su cui la presa dell'uomo aveva lasciato un segno rossastro per la forza con cui glieli aveva stretti.
Il militare riprese.
«Dunque, forse è il caso di iniziare con le presentazioni. Il mio nome è Jacob X e questa è la base della resistenza.»
«...voi siete l'Asilum TenSix

Accomodata ad un piccolo tavolino in acciaio, accanto ad una delle stufe elettriche che fornivano calore nella zona dell'hangar, Clover aveva ascoltato Jacob X davanti ad una tazza di tea inglese.
Non aveva smesso di tirare occhiate diffidenti a lui o ai suoi uomini, occhieggiando di quando in quando le porte d'uscita che si aprivano con sospiri d'aria rumorosi e subito si richiedevano dopo il passaggio di qualcuno. Non le ci era voluto molto per capire che ci fosse bisogno di un badge per superarle.
Quando, però, quelle si aprirono per l'ennesima volta mostrando il volto di carne e metallo di Julius, accompagnato da una donna in divisa militare, Clover si alzò in piedi rovesciando la propria sedia.
«Julius!»
Gli corse incontro, affondando il volto al suo petto, per stringersi contro di lui.
L'uomo le sorrise, circondandole le spalle in un abbraccio caldo che, istintivamente, la ragazza trovò rassicurante, come l'odore della sua pelle mescolato a quello vago di olio e il rumore leggero che i suo ingranaggi producevano ogni qual volta calibravano un movimento.
«Hey, piccola, stai bene?» le chiese lui, affondando il naso tra i suoi capelli biondi.
«Sì. Adesso sì.»
Nonostante tutto, tremava tra le sue braccia.
Julius le baciò una tempia, tirandosela addosso fino a ricoprirla con la propria pelle, quasi a spingersela nella gabbia di metallo che erano le sue parti cibernetiche.
«Va tutto bene, ci sono io, ora» le sussurrò, poi sollevò uno sguardo duro e fermo su Jacob.
Lo studiò per lunghi secondi, immagazzinando ogni informazione necessaria: addestramento militare, armi militari al plasma modificate, pannelli rinforzati ai muri, mitraglie a muro di sicurezza, porte blindate e tredici, no, quattordici uomini armati nell'hangar, senza contare quelli che aveva intravisto per arrivare fino a lì. Era stato trattenuto in quella che si poteva considerare tra un'infermeria e una sala computer, con dei fottuti sensori ovunque a monitorare Dio solo sapeva cosa.
Scusa, amico, non vogliamo rischiare che un senzacarne ci contagi. Era stata la giustificazione.
Avrebbe anche potuto capirli, se solo non fossero stati loro a portarli sino a lì con la forza.
«Fanculo Jacob, che diavolo ti è saltato in mente di metter su 'sta sceneggiata, eh?» sibilò, serrando più forte l'abbraccio intorno a Clover.
La ragazza sobbalzò, a rendersi conto che i due si conoscevano.
«Non prendertela. Volevo solo parlare e, come vedi, i ragazzi non hanno torto un capello al quadrifoglio» Jacob sollevò le mani per mostrarsi indifeso. Lo sguardo, però, suggeriva tutt'altro.
«Potevamo farlo anche alla tana
Un sorriso strano piegò le labbra dell'uomo. Una curva sottile, curiosa.
«La tana» si ripeté la parola quasi a volerne assaporare il concetto, mettendola quindi da parte con una sventolata sbrigativa della mano destra. Mancava di un dito, l'anulare, Clover lo notò solo in quell'istante «Non credo sareste stati particolarmente disposti a parlare con me, no.»
«Su quello ci puoi giurare...»
«Come fai a conoscerlo?» la voce di Clover era stata sottile come l'aria, me entrambi la sentirono benissimo.
Julius sospirò, abbassando lo sguardo su di lei.
Occhi azzurri, come il cielo d'estate che solo nelle fotografie era rimasto tale, lo guardavano pieni d'apprensione.
Julius sospirò, ruotando il capo di lato e per un attimo si vergognò dello sguardo di Clover.
«È... è il nonno di Izzie...»

Clover aveva avuto pochi minuti per assorbire e digerire la notizia.
Jacob era il cognato di Julius, il nonno di Isabel, come non bastasse, era anche il fondatore di Asilum TenSix, il corpo di resistenza che combatteva contro il Santuario.
Si stropicciò gli occhi, sentendo nella testa una gran confusione, mentre agli occhi si affacciavano domande che ancora non aveva osato fargli.
L'uomo l'aveva invitata a sedersi insieme a lui, ma lei aveva rifiutato la sua vicinanza.
Preferendo rimanere in disparte, si era spinta contro il muro a guardare i due parlare come vecchi amici o vecchi compagni di guerra, chiedendosi se, forse, non lo fossero stati per davvero, entrambi, in fondo, avevano un'esperienza militare alle spalle.
Si rese conto per la prima volta come, in fondo, di Julius non conosceva quasi niente.
Non aveva mai conosciuto sua figlia, il nome della sua ex moglie era diventato un taboo che non aveva mai voluto rompere, per più di una ragione, e di cosa facesse prima del loro, di lei, non gliene aveva mai voluto parlare. Sapeva solo che si era scontrato con Lucan, che per qualche ragione era finito a lavorare per Royal e quando era stato il momento di decidere tra lui e Lucan, aveva scelto quest'ultimo.
Di Julius sapeva solo che era un uomo buono e credeva – si era illusa – che fosse sufficiente, anche se c'erano notti in cui rimaneva sveglia a contare gli ingranaggi del suo corpo o a scorrere la punta delle dita sui legamenti d'acciaio rinforzato del suo braccio sinistro chiedendosi se anche sua moglie (ex-moglie) avesse percorso lo stesso tragitto quando ancora aveva entrambi gli arti.
«Non puoi continuare a fare quello che ti pare, Julius. Hai delle responsabilità, se non verso Miriam, di sicuro verso Izzie.»
Julius serrò i denti e Clover sentì quel nome per la prima volta. Miriam. Una spina invisibile le si conficcò nel petto e per qualche attimo le sembrò di non riuscire a respirare.
«Non parlarmi di responsabilità. Guardami, di chi credi che sia la colpa se vado in giro con mezza faccia? Se la mia stessa figlia pensa che io sia un mostro e ha pianto terrorizzata alla mia vista, mhm? Ho fatto quello che volevi, Jake, ho già ripagato il mio fottuto debito. Non ti permetterò di coinvolgere Clovere e Lucan nella tua follia, ti avevo già avvertito di lasciarli in pace.»
Clover avanzò di un passo verso Julius. Non riusciva a capire cosa c'entrasse Jacob, perché l'uomo sapesse di lei e che cosa mai potesse volere anche da Lucan, ma Julius li aveva voluti al sicuro, li aveva voluti proteggere.
Un altro passo. Piccolo. Esitante. Julius si voltò a guardarla, abbozzando uno dei suoi sorrisi rassicuranti che sembravano fatti apposta per dirle che sarebbe andato tutto bene, quando l'esplosione la gettò a terra.

«Clo-Clover!»
Julius la cercò a tentoni, tra polvere e calcinacci.
«Sto... sto bene...» mormorò la ragazza. Le orecchie fischiavano e oltre la coltre di polvere riusciva a vedere poco, sagome scure più grosse di lei, uomini che erano stati buttati a terra a loro volta a causa dell'esplosione.
Strisciò in avanti, verso un uomo ricurvo, seguendo la voce di Julius.
«Julius?» ma quando allungò una mano a toccarne il braccio sinistro, invece di sentire il freddo metallo sotto le dita, percepì muscoli e carne e pelle dura.
Tyron sollevò lo sguardo su di lei, aveva occhi così verdi che poteva vedervi attraverso. Senza darle il tempo di capire cosa stesse succedendo, si affrettò ad afferrarle il colpo, tirandola a sé e poi in piedi.
Lei fece per lamentarsi, per tirargli un calcio e tentare di liberarsi, ma il braccio del giovane militare si tese ad indicare una porticina nascosta tra le croste del muro che fino a quel momento non aveva visto.
«Scappa» le disse. La spinse in quella direzione e imbracciò il suo K-BULL puntandolo verso la nuvola di fumo che aveva avvolto la porta rinforzata «Muoviti! Che diavolo stai aspettando, scappa!»
Ma le gambe di Clover non volevano saperne di muoversi e il suo cervello continuava a urlarle che non avrebbe potuto lasciare indietro Julius, che non poteva scappare da sola.
Lo cercò tra il fumo e quando, finalmente, questo si diradò, spalancò lo sguardo sull'uomo che, in sella ad una moto, si era fatto strada a granate EMP per la struttura.
«Ridatemi Clover. ORA!»
Sulla porta, Lucan teneva puntata contro Jacob e i suoi uomini la canna di due pistole e nello sguardo aveva tutta la rabbia del mondo.
«Lucan...»
Quando vide Clover, alle spalle del militare dagli occhi azzurri, mosse immediatamente una delle pistole alla testa di lui.
«Se avete provato anche solo a torcerle un capelli, vi strapperò le budella direttamente dal culo!»
«Cazzo...» sibilò Tyron. L'aveva riconosciuto e, con lui, anche gli uomini di Jacob, sebbene mai avrebbero pensato che sarebbe riuscito ad arrivare fino al cuore del loro rifugio, lui da solo.
Poco distante da Tyron e Clover, Julius si stava ancora rialzando da terra, tenendosi la testa, stordito per il rombo dell'esplosione che gli aveva penetrato i timpani.
«Ouch. Anche io sto benone e sono felice di vederti, sai?» borbottò, riconoscendo il biondo.
Si mise seduto in terra, reclinando il capo di lato, scuotendolo per togliersi la polvere dai capelli che gli ricaddero spettinati sulla fronte.
Lucan gli tirò un'occhiata breve, si assicurò che stesse bene, grugnì qualcosa in risposta che suonava fin troppo simile ad un insulto e raggiunse Clover, spintonando Tyron con il calcio del fucile.
Non smise di tenere gli uomini sotto mira, ma quando raggiunse la ragazza, chinò il capo su di lei.
«Stai bene?» il tono si era fatto dolciastro.
Clover annuì.
«Non ci hanno fatto niente» aggiunse «Sono gli uomini dell'Asilum TenSix.»
A quelle parole, negli occhi di Lucan si schiantò un lampo di rabbia e realizzazione che pizzicò l'intero corpo in una scarica elettrica.
«JULIUS!» ruggì a pieni polmoni.
L'attimo dopo, aveva gettato le tranciamostri a terra e si era scaraventato a pugni chiusi sull'uomo, colpendolo senza ritegno.

Un pugno. un gemito di dolore. Un pugno, un'imprecazione. Un pugno, le nocche che si scorticavano. Un pugno, la mascella che scricchiolava senza spezzarsi. Un pugno, lo scheletro di titanio rinforzato che si calibrava per sostenere l'impatto.
Julius non aveva cercato di difendersi, se non ruotando il capo nel verso del colpo, in modo da diminuirei danni – quelli alle mani di Lucan, più che i propri.
Ci erano già passati, più di una volta, ed ogni volta quel fottuto gigante biondo faceva della decisione di ammazzare l'altro la propria crociata.
Uccidere Julius a pugni, però, non era tra le cose più semplici. Dall'innesto delle sue parti cibernetiche, la sua soglia del dolore si era fatta più alta e parte del suo scheletro era stato rafforzato grazie al metallo di cui era costituito.
Lucan era forte, forse l'uomo più forte che Julius avesse mai incontrato, ma perfino per lui, ci sarebbe voluto tempo. Tempo che, sfortunatamente, il biondo era sempre disposto a sprecare quando si parlava di spaccargli la faccia.
Julius cercò di parare malamente gli ultimi colpi.
«Cristo, la vuoi finire? Devo ricordarti che Clò mi ha appena riparato?» berciò, sentendo l'impatto delle nocche altrui cozzare violentemente contro la tempia destra e spaccargli il sopracciglio.
«Non me ne frega un cazzo, ti distruggerò come il fottuto rottame che sei!»
Un altro pugno.
«Molto maturo, bravo!»
Un altro pugno, solo per farlo tacere.
Intorno a loro, gli uomini di Jacob non avevano alzato un dito per fermare la furia di Lucan. Per quanto fossero stati presi alla sprovvista, il fatto che se la fosse presa con il suo stesso compagno aveva sollevato espressioni di ilarità, tanto che un paio di loro si erano sgomitati l'un l'altro azzardando scommesse su chi dei due fosse crollato prima per la stanchezza.
La maggior parte di loro aveva puntato Lucan come vincitore.
Jacob non si era espresso. Con le braccia incrociate li guardava scannarsi come bambini: Julius era sdraiato a terra e Lucan gli era a cavalcioni sopra, colpendo come un toro imbufalito che non era in grado di vedere null'altro se non lo sventolio di un mantello rosso.
Jacob storse il naso.
Non sarebbe stato in grado di vedere nemmeno la lama della spada nascosta dietro al mantello.
Lucan tirò nuovamente il gomito indietro. I colpi, però, si fermarono all'improvviso.
Ruotò il capo, stupito, guardando il proprio pugno rimasto a mezz'aria.
Afferrandolo con entrambe le mani, Clover aveva bloccato il polso di suo fratello.
«Ora basta» soffiò, inginocchiata accanto a lui.
Gli liberò il polso con cautela e gli circondò le spalle in un abbraccio caldo, affettuoso.
«Stiamo bene. Stiamo bene...» gli mormorò di nuovo, come se fosse quella la soluzione alla rabbia di Lucan, come se tutto dipendesse solo da quello.
Era così.
Lucan riabbassò il braccio e respirò profonde boccate contro la spalla sottile di Clover. Chiuse gli occhi, affondando il naso all'incavo del suo collo bianco e inspirando a fondo finché lei, in tutta la sua interezza, non gli fosse entrata dentro.
«Stiamo bene...» continuò a mormorargli la ragazza. Le dita piccole e affusolate affondavano tra le ciocche corte e bionde dell'uomo in carezze gentili, ammansendo la belva affamata di vendetta in cui l'avevano trasformato tanto tempo prima.
Lucan le strinse le braccia alla vita, la tirò a sé e, nel frattempo, finì a pesare completamente sulle gambe di Julius, strusciandosi appena – inconsciamente – con il bacino contro il bassoventre dell'altro uomo, levandogli un grugnito di apprezzamento che si perse tra le pareti di ferro dell'hangar.
«Staremmo tutti più comodi se la sua maestà di ‘sti cazzi si levasse letteralmente dai miei coglioni.»
Clover sospirò una risata breve, occhieggiando l'uomo rimasto sdraiato a terra, che abbandonata la nuca sul pavimento e, dolorante, riprendeva fiato. Lucan, invece, lo ignorò ancora per qualche minuto, stringendosi alla ragazza e stringendola a sé, toccandola ad assicurarsi che fosse reale, che fosse di nuovo con lui, dove sarebbe dovuta essere sempre. Al sicuro.
Le posò un bacio al collo e pianissimo, come il rombo di un tuono in lontananza, le sussurrò contro l'orecchio «State bene» che scivolò tiepido contro la pelle morbida di lei. State. Plurale. Perché, in fondo, si era preoccupato anche del senzacarne.
Solo dopo parecchio decise di alzarsi da Julius, portando con sé la sorella, senza sciogliere l'abbraccio alla vita di lei.
Tirò un'occhiata riottosa agli uomini dell'Asilum TenSix e una ancora più diffidente a Jacob X, ma invece di rivolgere loro la parola, attese che l'ex Peacemaker si rialzasse in piedi e traballasse verso una seggiola, per lasciarsi cadere pesantemente sopra.
Infilò una mano nella tasca dei jeans, la estrasse e sbattè sulla superficie d'acciaio del tavolino. Quando la tolse, sul tavolo era rimasta una vecchia scatola di latta arrugginita. Sul coperchio, segnato da graffi e smagliature del metallo, spiccava in soprarilievo il muso stilizzato di un gatto dalle fauci ghignanti e dall'espressione allampanata.
Julius serrò la mascella.
«Spiega.»
«Lucan...»
«Ho detto spiega» ordinò. Non gli avrebbe permesso di cambiare argomento, di indorare la pillola o di inventare frottole. Pretendeva una spiegazione e l'altro, se tanto credeva di essere suo amico, allora gliela doveva.
Clover guardò la scatola in silenzio, riconoscendo sul coperchio quello che, finora, aveva aveva creduto essere un marchio di fabbrica. Lo stesso disegno che marchiava gli ingranaggi di Julius all'altezza del suo zigomo sinistro.
Julius rovesciò uno sguardo amareggiato su Jacob, rimasto in silenzio fino a quel momento. L'ex militare aveva prima rassicurato i propri uomini, li aveva invitati a riprendere le normali attività che avrebbero dovuto svolgere prima dell'arrivo di Lucan e, con lui, era rimasto soltanto Tyron. Tra gli uomini, doveva essere il più giovane, la ventina d'anni superata da poco, il volto sporco di una barba corta e nera, come corti e corvini erano i capelli. Giovane, sì, ma non piccolo. Era un altro di quei giganti che avrebbe potuto gareggiare in altezza con Lucan – cosa che gli fece guadagnare una smorfia da Julius –, il fisico prestante ed occhi verdi che avevano da subito incuriosito Clover.
Alle volte il ragazzo si era riscoperto venir osservato da lei e allora sorrideva sfrontato, gonfiando il petto come se fosse motivo d'orgoglio. Ogni volta Lucan seguiva le occhiate tra i due e lo fissava con una freddezza mortale.
Jacob allungò la mano al tavolo. Cercò di prendere la scatola di latta, ma Lucan fu più veloce a sbattere il palmo di nuovo sul coperchio di questa, impedendogli di toccarla.
Non aveva smesso, però, di puntare la propria attenzione su Julius, in un'attesa che metteva a dura prova la sua già poca pazienza.
«Diglielo, tanto prima o poi avrebbe dovuto saperlo comunque» a decretarlo fu Jacob X.

 

La base dell'Asilum TenSix era una struttura divisa a compartimenti stagni, come una fregata da guerra costruita nel sottosuolo. Qualora uno o più comparti venivano attaccati o per qualche motivo la loro sicurezza veniva meno, questi si chiudevano e venivano inondati dall'acqua proveniente dal canale fognario con cui la base si intrecciava.
Lucan, gli avevano spiegato, era riuscito ad arrivare fino al cuore dell'Asilum per merito di una grande dosa di fortuna e abilità e perché, chi lo aveva scoperto, l'aveva riconosciuto e glielo aveva permesso. Inoltre i danni da lui causati non erano stati così ingenti – se non si considerava l'esplosione del portellone dell'hangar.
La chiacchierata si era protratta per ore, nelle quali Lucan aveva riempito di domande Julius e Jacob, aveva afferrato il bavero della divisa di quest'ultimo ed era stato vicino, vicinissimo, a prendere a pugni pure lui.
A calmarlo era stata unicamente la presenza di Clover.
L'alloggio che avevano concesso loro, convincendoli a passarvi almeno la notte e schiarirsi le idee, ospitava due letti che avevano unito per formarne uno doppio e un divano. Era bastata un'occhiataccia di Lucan, perché Julius capisse l'antifona, finendo per prendersi il divano, per quanto il biondo, dopo la cena offerta da Jacob, era rimasto fuori dalla porta a fumare una sigaretta dopo l'altra.
Nervoso.
Il solito cane rabbioso.
«Per quello che vale, non ho mai voluto che foste coinvolti. Nessuno di voi due.»
Le parole di Julius rimbalzarono contro la schiena di Lucan, poggiato con il fianco destro allo stipite della porta.
Clover era seduta al centro del letto, il sedere affondato tra i talloni e la scatola di latta aperta e svuotata davanti alle proprie ginocchia. Da quando Lucan aveva permesso che si aprisse, non aveva fatto altro che studiarne il contenuto.
Su vecchi fogli erano tracciati progetti, disegni di un corpo all'apparenza umano, formule matematiche e fisiche e codici informatici che era riuscita a comprendere soltanto in parte. Alcuni di essi non avevano senso, non potevano essere corretti.
Inseriti nelle formule, e visibili soltanto ad un'occhiata più oculata, c'erano schemi particolari che formavano dei disegni. In alcuni fogli c'era una cascata di 0 e 1, calcoli in codice binario che in certi punti si interrompevano con degli spazi all'apparenza casuali. Le ci era voluto un po' per notare il ghigno a zanne scoperte di un gatto stilizzato. Su un altro dei fogli, tra le formule matematiche, balzavano i tratti rozzi dello schizzo a inchiostro nero di un coniglio bianco, dal muso senza pelo, a teschio scoperto, così simile al tatuaggio che marchiava il retro del collo di Lucan. Su altri fogli ancora, come disegnato dalle mani di un bambino, le formule erano state imbrattate dal disegno di un cilindro e incastrato nella fascia una carta con un numero: 10/6.
TenSix.
L'ultimo pezzo che riempiva la scatola di latta era infine un oggetto costruito in plastica trasparente, nel mezzo, tra tratteggi, punti e curve che la bucavano e formavano la scia di un programma, prendevano vita le quattro foglie arrotondate di un quadrifoglio.
È la Matrice del Wonderland. Aveva spiegato loro Jacob.
Che cazzo è Wonderland?
Voi siete il Wonderland.

Clover aveva continuato a stringere la matrice tra le dita piccole e bianche; le era sembrato che nulla avesse un senso e che tutto, invece, lo avesse.
Ma quando il Coniglio trasse un orologio dal taschino della sottoveste e lo consultò, e si mise a scappare, Alice saltò in piedi pensando di non aver mai visto un coniglio con la sottove ste e il taschino, né con un orologio da cavar fuori, e, ardente di curiosità, traversò il campo correndogli appresso e arrivò appena in tempo per vederlo entrare in un a spaziosa conigliera sotto la siepe.
Un istante dopo, Alice scivolava giù correndogli appresso, senza pensare a come avrebbe fatto poi per uscirne.

La storia di Alice nel Paese delle Meraviglie si era srotolata direttamente nella sua mente, senza che ricordasse di averla mai letta o che qualcuno l'avesse letta per lei. Le parole si susseguivano pronunciate da una voce maschile, sconosciuta e insieme familiare, che all'inizio aveva pensato essere quella di Lucan, finché aveva capito che non poteva essere la sua. Era una voce più rauca, anziana.
«Possiamo andarcene altrove. Dare qualche mazzetta ai bastardi della baia, perché ci trovino un posto su Caronte e farci traghettare fuori dalla cupola» la proposta di Julius giunse come distrazione e la voce anziana si spense tra i pensieri di Clover, lasciandole soltanto un nome bisbigliato all'orecchio. Ailìs.
Lucan, per la prima volta dopo parecchio, si voltò verso l'uomo.
«Ti ammazzerebbero come un cane prima ancora di mettere piede su uno di quelle balene di ferro.»
«Il tuo ottimismo e la tua fiducia nei miei confronti mi commuove.»
«Sei un senzacarne marchiato e finito sotto il mirino di Royal, esattamente come me. Se siamo rimasti al sicuro fino a questo momento è solo perché ce ne siamo rimasti in questa cupola di merda.»
«D'accordo. Allora, proposte? Quando Jake inizierà la sua guerra, non ci sarà alcun posto sicuro qui a Rotten Apple.»
«Quando la inizierà, non ci sarà un posto sicuro da nessuna parte.»
«Potremmo sempre aiutarlo.»
Due paia di occhi si puntarono sul volto delicato di Clover. La sigaretta di Lucan, incastrata tra i denti, traballò, rischiando di cadere.
Clover sollevò lo sguardo dalla matrice ai due uomini, guardando prima l'uno e poi l'altro con la stessa sicurezza che aveva sbattuto in faccia a Lucan le prime volte, da bambina, quando tutto quello che desiderava era continuare a vivere. Vivere. Con la stessa sicurezza con cui, sorridendo, batteva sui tasti del computer di Julius raccogliendo una sua sfida nel completare lo script per un programma. Con la stessa sicurezza con cui, una sera di (sembrava) troppo tempo fa, li aveva guardati entrambi e aveva detto di voler fare l'amore con loro, con entrambi, perché soltanto con entrambi si sentiva completa. Soltanto con entrambi sentiva di star vivendo.
«Cristo, Clò, non puoi dire sul serio» Lucan sputò la cicca della sigaretta in terra. La schiacciò sotto lo stivale e avanzò nell'alloggio, sbattendo per nulla gentilmente la porta dietro di sé.
«Non è la nostra guerra, Clò» si aggiunse Julius.
«Al contrario. Io credo che non sia la loro
«Cristo santo, le puttanate di quel vecchio ti hanno dato alla testa?»
«Non sono puttanate» sollevò il mento, cercando di fronteggiare con coraggio l'espressione seccata di suo fratello. L'uomo l'aveva raggiunta ai piedi del letto e aveva poggiato un ginocchio sul materasso, sollevandosi su questo per farsi più vicino alla ragazza.
Perfino in ginocchio era un gigante ai suoi occhi. Lo era sempre stato, fin dalla prima volta in cui l'aveva trovata tra i bidoni dell'immondizia...
Un gigante con il tatuaggio di un coniglio bianco, che lei aveva seguito nella sua tana.
E tuttora continuava a cadere in quelle profondità.
«Non so come spiegarlo, ma c'è una parte dentro di me che ha sempre saputo tutto quello che Jacob ci ha raccontato. E sono sicura che anche per voi valga lo stesso.»
Tenne lo sguardo fisso negli occhi di Lucan. In quelle feritoie nocciola in cui il fuoco si accendeva fin troppo spesso, che guardano ogni cosa con violenza e che non conoscevano (non bene quanto avrebbe voluto o dovuto) la compassione e da poco, pochissimo, avevano invece imparato cosa fosse il perdono.
Clover sostenne il suo sguardo, stringendo i pugni per ingoiare la paura. E, sebbene non avesse mai voluto farle del male (ma non per questo non gliene aveva fatto), Lucan era l'uomo di cui aveva più paura e l'uomo che amava di più al mondo.
Era il suo salvatore. Il suo boia.
E lei era la sua anima e la sua condanna.
Lucan, per la prima volta, tentennò, incapace di resistere al chiarore degli occhi azzurri di lei. Del cielo azzurro di prima delle cupole gli era rimasta una vecchissima fotografia di quando era bambino. Era seduto con le gambe a penzoloni sulle cosce di suo padre, con un camicie bianco grande il doppio di lui e puntava il dito verso un obbiettivo di una macchina fotografica dietro cui non ricordava chi potesse trovarsi. Sua madre era morta di parto, dando alla luce un fratello nato morto, lasciandolo figlio unico. Quando anche suo padre era morto, che lui aveva solo sei o sette anni, era stata la rabbia a riempire il suo vuoto.
Poi erano arrivate le sigarette, le canne, l'alcol, le puttane e le risse tra i bar.
Aveva imparato a difendersi, a prendere quello che voleva con la forza, a uccidere per non essere ucciso e, soprattutto, a sopravvivere. Non contava più le volte in cui qualche leccapiedi di Royal lo aveva cercato tra i tavoli di qualche nightclub o da dietro le sbarre in centrale offrendogli tutto quello che voleva pur di reclutarlo.
Non aveva mai accettato perché, nonostante tutto, da qualche parte, perfino uno stronzo come lui aveva una coscienza. Non aveva mai accettato perché, in fondo, da qualche parte, sapeva che suo padre ne sarebbe stato così deluso da rivoltarsi nella tomba.
E quando Royal si era rotto le palle di chiedergli di unirsi a lui, aveva deciso che se non lo era, significava che doveva essere contro di lui. Julius era stato solo l'ultimo dei Peacemaker che gli aveva mandato alle calcagna – il peggiore, da quel che aveva sentito –, ma era stato anche l'unico che non aveva rispedito al mittente senza testa e senza palle. Era stato l'unico che aveva tenuto con sé, che aveva risparmiato (e che, ne aveva sempre avuto il dubbio, ma ora ne era certo, aveva deciso di risparmiarlo per qualche oscuro motivo).
E gli era andata benissimo così. Finché Clover e i suoi occhi azzurri come il cielo non erano entrati nella sua (loro) vita.
Portò anche il ginocchio gemello sul letto, troneggiando completamente sul corpo più minuto della ragazza. Le strinse il volto a coppa tra le mani e le sollevò il mento, fino a costringerla a tirare la testa completamente indietro, gettandole onde bionde che profumavano di un sapone neutro (avevano permesso loro di fare una doccia, era il minimo dopotutto) dietro la schiena.
Si chinò a baciarla, spalancando la bocca alla sua, avido, prepotente. Non riusciva mai a trattenersi con lei, era come se ogni volta che la toccava, che la accarezzava o che la baciava, dovesse ingoiarla, come un fottuto serpente.
Lei gli gemette in bocca e quel suono soltanto gli fece scattare una scintilla eccitata. Le spintonò a spalla, facendola cadere tra le coperte, e premendola contro il materasso per obbligarla a rimanere giù, mentre con l'altra mano toglieva di mezzo tutto quello che era stata la scatola di latta di Julius. Non era sua, era di suo padre, gli aveva spiegato l'uomo – lo sguardo si era incupito mentre gli diceva di non averlo mai conosciuto, ma non era solo per quello, c'era dell'altro che non aveva voluto dirgli e che Lucan, invece, aveva istintivamente avuto paura di chiedergli.
«Aha...» Clover gemette di nuovo, quando Lucan le afferrò le caviglie e le sollevò in alto, divaricandole a forza le gambe. Addosso aveva un paio di boxer da uomo che quello stronzetto dal sorriso sfrontato, quel tale Tyron, le aveva prestato con la scusa che in quella base mancassero abiti femminili. Clover era sicura di aver visto delle donne, ma, finché si trattava di abiti puliti, che fossero maschili o femminili non le era mai cambiato nulla.
Ora, sotto le dita callose e ruvide di Lucan, i boxer le scivolarono in fretta sulle cosce, strappati e gettati ai piedi del letto, mentre la maglia dal colore verde militare che le avevano prestato, si arricciava in grembo, lasciandole le gambe completamente nude ed esponendo la sua intimità.
Dal divano, Julius non aveva smesso di guardarli. Quando Lucan era scattato, lui aveva irrigidito le spalle, pronto eventualmente a scattare a difesa della ragazza, anche se sapeva perfettamente che l'amico non le avrebbe fatto del male. Non da sobrio, per lo meno... e, in ogni caso, ogni volta che da ubriaco aveva osato avvicinarsi a Clover in sua presenza, l'aveva sempre rimesso al suo posto riempiendolo di pugni abbastanza forti da metterlo KO per parecchie ore.
Aveva fatto scivolare i piedi nudi a terra, quando l'altro aveva spalancato le gambe di Clover e l'aveva spogliata dei boxer maschili. Dalla sua posizione riusciva a vedere bene entrambi, non c'erano barriere che gli impedissero di vedere l'intimità glabra di lei, la pelle sensibile e nuda esposta e già lucida dei primi umori.
Lucan sorrise leccandosi le labbra.
«Sei già eccitata?»
Non era una domanda retorica. Clover arrossì, portando le mani ad allungare la maglia tra le gambe e cercando di liberarsi dalla presa ferrea del fratello. Inutilmente. Forse, anzi, non era nemmeno davvero sua intenzione quella di liberarsi.
Lucan la scosse per le gambe, alzandogliele perfino più in alto, fino a sollevarle anche i glutei dal materasso. Le incastrò le ginocchia alle proprie spalle, e con le mani ora libere le catturò i polsi, per sollevarglieli sopra la testa, puntellandoli al letto.
Gli occhi si affilarono nel guardarla, lame scure (l'iride nocciola sporcato da tracce di verde, come il colore di un tronco d'albero esposto a nord e sporco di muschio) si incastrarono in quelli azzurri di Clover, in uno sguardo che era insieme violento e affamato e predatorio e la lasciavano più nuda e vulnerabile di quanto già non fosse.
Altri umori si unirono a quelli che già la bagnavano, iniziando a gocciolarle lungo l'interno coscia in una scia umida e brillante che risaltava oscena sulla pelle bianca.
Julius raddrizzò la schiena, mettendosi completamente a sedere e tirandosi indietro, per poggiarla allo schienale del divano. Divaricò le gambe e tra i boxer che indossava iniziò a prendere forma il bozzo gonfio dell'erezione. La massaggiò sopra la stoffa a palmo aperto, inarcando la schiena piano, lentamente, godendosi la frizione e la vista dei glutei rotondi e bianchi di Clover che venivano esposti e mostravano tutto.
«Sei già eccitata?» le domandò di nuovo Lucan, chinandosi con la schiena in avanti, su di lei, avvicinando labbra spalancate a mostrare denti pronti a morderla, vicinissimo alla bocca rossa della ragazza.
Clover sospirò. Annuì con un colpetto della nuca e Lucan si piegò maggiormente in avanti, buttando il proprio peso tutto contro la schiena curva di lei, strusciando il bassoventre sulla sua vagina.
Clover gemette.
«Voglio sentirtelo dire» gli ringhiò lui e se con una mano le teneva bloccati i polsi, con l'altra le strinse la mascella, premendole tra le ossa, per obbligarla a tenere la bocca aperta in un ordine più che implicito ad obbedire.
La presa era dura, rude, il dolore presente, ma che non superava mai una certa soglia. Sapeva perfettamente quanto dolore lei potesse sopportare, glielo leggeva negli occhi, quando lo supplicava di fare più forte, di stringerla di più, di prenderla e romperla e masticare i suoi resti. E lei, in quel suo masochismo completamente dipendente dal fratello e dalle sue mani, dalla sua bocca e dai suoi morsi, non anelava altro che di compiacerlo.
«Sì» mormorò appena, in un ansimo vibrante che si depositò sulle labbra di Lucan e scivolò caldo anche nei timpani di Julius «Sono già eccitata.»
«Cazzo...» commentò l'ex Peacemaker.
Per un attimo Lucan ruotò il capo di lato a realizzare la sua posizione, concedendogli solo la coda dell'occhio con cui ne studiò sbrigativo le forme del fisico, apprezzando comunque i muscoli tesi nell'eccitazione e l'erezione che aveva appena scoperto dai boxer, abbassandoseli alle caviglie. Dura, lunga, grossa, una fottuta bandiera che salutava il suo comandante.
Tenendole ancora le dita alla mascella, la alzò verso di sé, calando a bocca aperta, in un morso vorace che le azzannò il labbro inferiore. Fece scorrere la lingua sui segni del proprio morso, la spinse nella sua bocca e le ingoiò respiro, gemiti, ossigeno. Avrebbe potuto baciarla per sempre, scavare con la lingua nella sua bocca, leccarle i denti, il palato, sino ad infilargliela in gola, bere della sua saliva e soffocare insieme a lei.
E mentre la baciava continuava a muoversi in spinte ondeggianti che sbattevano il bassoventre tra le sue cosce, che le premevano il gonfiore nei boxer e nei jeans ancora abbottonati sull'intimità, sfregando la stoffa ruvida contro la sua pelle umida e sensibile. La sentì mugolare ed agitare i fianchi, cercando di aumentare gli sfregamenti e sentire maggiormente l'erezione di Lucan contro la propria vagina; strattonava le braccia, cercando di liberarsi dalla presa dell'uomo, con il bisogno di toccarlo e, contemporaneamente, eccitata dalla restrizione, dall'essere completamente alla sua mercé.
Lucan emise un mezzo grugnito, un verso animalesco di piacere che le riversò direttamente in bocca. Sciolse il bacio, si tirò in dietro e si piegò questa volta tra le sue gambe. La leccò, una lappata ampia che seguiva l'intero taglio delle grandi labbra, raccogliendo il sapore di lei e dei suoi umori.
Clover quasi urlò, un delizioso gemito acuto che fece sorridere entrambi gli uomini.
Julius aveva iniziato a pomparsi l'erezione, masturbandosi a pugno chiuso e stretto che sbatteva contro il pube in colpi umidi e gemiti rochi.
Non gli dispiaceva essere stato rilegato al divano, se poteva assistere a quello spettacolo. Aveva già visto Clover nuda, l'aveva già vista dimenarsi mugolante, implorando di essere toccata e leccata e scopata. Lui per prima l'aveva fatto, anche se mai senza la presenza e il consenso di Lucan, e non c'era nulla che lo eccitasse di più dell'idea di poter affondare tra le sue cosce insieme al biondo, di spingersi allo stesso ritmo di Lucan, affondare con gli stessi battiti umidi e viscidi che si univano al battito cardiaco dell'altro e vederla perdere ogni freno, ogni contatto con la realtà, ogni pudore, fino all'orgasmo.
La prima volta che l'aveva vista nuda era stato così tanto tempo prima che non ricordava se fossero passati soltanto mesi o addirittura anni. La prima, forse. La seconda, temeva. Anche se loro erano già uomini e lei ancora ragazzina.
L'aveva sentita singhiozzare oltre la porta della stanza, gemere parole sommesse che non aveva capito e quando era entrato l'aveva trovata sottomessa a quel bisonte del fratello, seppellito completamente in lei. Julius gli era saltato addosso senza pensarci nemmeno un attimo ed era stata anche la prima volta (ma non l'unica) che si era pentito di non averlo ammazzato quando avrebbe dovuto – quando ancora ne avrebbe avuto la possibilità. Perché Clover finiva sempre per fermarlo. O fermare Lucan. E far finire le liti.
Clover finiva sempre per fare in modo che entrambi ruotassero intorno a lei, come pianeti intorno a un piccolo biondissimo meraviglioso sole.
Non aveva capito che razza di rapporto malato e dipendente avessero quei due, finché non ci era cascato anche lui, finché Lucan non gli aveva sputato addosso qualcuno dei suoi insulti e gli aveva ordinato di muovere il culo e raggiungerli in camera per guardarli scopare. E da lì il degenero. Vuoi che si masturbi mentre ci guarda, vero, Clò? Ti piace sentire addosso gli occhi di quel senzacarne mentre ti fotto, vero? Vuoi essere scopata davanti e dietro e riempita ovunque, anche dal seme del senzacarne, vero?
La risposta era sempre un sospirato sporco di voglie e lascivia. Clover aveva sempre fatto tutto quello che suo fratello le diceva o le chiedeva, tanto che Julius aveva temuto lo avesse accettato tra le sue lenzuola e tra le sue cosce solo per paura di lui.
Gli ci era voluto un po' per capire che Lucan sapeva leggerle ogni sporca voglia negli occhi e vi dava voce per lei, devoto all'esaudimento di ogni suo desiderio, fosse stato anche il più perverso.
«Muori dalla voglia di succhiare il cazzo del senzacarne, Clò?» domandò Lucan, con i denti stretti intorno al clitoride della ragazza, mordicchiandolo e succhiando piano, facendola gemere più forte ad ogni morsetto.
Lei strizzò gli occhi e annuì e Lucan, per punirla, la morse più forte, facendole sussultare tutto il corpo.
«S-sì...» gemette allora la ragazza, obbediente.
«Brava. Anche se non so se perdonato il bastardo.»
Julius ruotò gli occhi al soffitto. Lucidi, dopotutto, ancora eccitati, perfino a sentirsi insultare da quello stronzo.
«Supplicami» sibilò il biondo, soffiando fiato bollente contro il suo clitoride gonfio e umido di umori e saliva.
Clover singhiozzò, ingoiando un altro ansimo e inarcandosi debolmente in quella posizione scomoda che vedeva le sue ginocchia spinte quasi completamente contro le proprie spalle sottili, dando all'uomo completo accesso alle sue aperture.
«Ti prego... Lu-Lucan... fammelo... fammelo succhiare...»
«Cosa?»
Alla domanda Julius deglutì, quasi sull'orlo dell'orgasmo solo a sentire quanto la ragazza desiderasse avere la bocca piena del suo pene.
Clover ingoiò ogni vergogna «Fammi succhiare... il... il cazzo di Julius... ti supplico...» implorò e Julius grugnì un gemito roco e profondo, resistendo a malapena al bisogno di alzarsi e tuffare la propria erezione direttamente nella gola di lei.
Lucan finse di doverci pensare su. Si fece pregare ancora, godendo delle suppliche di sua sorella e del potere che aveva su di lei, del modo in cui poteva abusare del suo corpo fino a farla sciogliere tra le proprie dita. E fu proprio con due dita che iniziò a penetrarla, dando un nuovo spettacolo agli occhi avidi di Julius che non aveva smesso di guardarli e masturbarsi ed era ormai vicinissimo all'orgasmo.
«Vieni, stronzo» all'ambiguità della frase, Julius rimase per un attimo confuso – e stordito dal bisogno di sentirsi circondare dal calore lavico della bocca di Clover o della sua vagina stretta in un abbraccio soffocante intorno alla propria asta. Sorrise però, incrociando brevemente l'occhiata seccata di Lucan (aveva avuto una parvenza quasi infantile e gli era bastato per capire che l'uomo lo aveva perdonato), lo stesso sorriso storto e a denti scoperti del gatto che gli marchiava gli ingranaggi.
Si diede slancio alzandosi per raggiungere il letto. Passi lenti e traballanti, che lasciarono dietro i boxer, fino a sollevarsi sul materasso in ginocchio e, accanto ai due. Stampò un bacio dolciastro e così casto da sembrare perculatorio (anche se non ci sarebbe stato nulla di più errato nel pensarlo) sulle labbra di Lucan, strusciando con il mento sull'intimità bagnata della ragazza e bagnandosi la pelle dei suoi umori.
«Farò il bravo senzacarne» promise, con tono divertito.
Girato verso il fianco dei due fratelli, troneggiare a propria volta sul corpicino più esile di Clover. Aveva smesso di masturbarsi, ma con le dita allacciate intorno al pene, lo teneva verso il volto di lei gocciolandole perle bianche e dense su pelle bianca.
Lucan si risollevò brevemente dalle cosce della sorella, solo per poter puntare lo sguardo su Julius, sulla sua erezione dura e pulsante e sul volto della più piccola.
L'ex peacemaker inarcò un sopracciglio, sbuffò una mezza risata e dell'ambiguità della frase del biondo capì finalmente ogni sfumatura dell'ordine. Ricominciò a masturbarsi, più veloce, ondeggiando avanti e indietro con i fianchi, in un dondolare dei testicoli che gonfi e pieni sfioravano rimbalzavano contro il pube, mentre Lucan tornava a penetrare la sorella con due dita, prima pianissimo, facendola tremare per la lentezza di quegli affondi che mano a mano si allargavano contro le pareti vaginali, poi più veloce, seguendo le pompate di Julius.
Clover gemeva sotto di loro, cercava invano di distendersi o sfuggire alle penetrazioni delle dita e poi andar loro incontro, finché alle due dita non se ne aggiunse una terza e l'invasione si fece più dura e profonda.
Julius guardava, si masturbava e godeva. E quando finalmente raggiunse l'orgasmo, esplose direttamente sul bel visetto di Clover, in fiotti caldi e densi che le aprirono macchie di seme sulle sue guance arrossate e tra le sue labbra. Non contento, le sollevò anche la maglia, scoprendole i seni pieni per poter svuotare gli ultimi fiotti su quelle dolci colline e sui capezzoli turgidi che spuntavano come capocchie di spilli rosate.
La videro contrarre i muscoli delle gambe e tendere le spalle indietro, gettando il capo contro il cuscino. Davanti alla gola scoperta, entrambi sembrarono fare a gara a chi l'avesse raggiunta per primo, si tuffarono come lupi affamati, affondando i denti e succhiandole la pelle tra le labbra, lasciando macchie rossastre, succhiotti che percorrevano il collo bianco e sottile come marchi di proprietà. Capitava che la bocca di Julius si scontrasse con quella di Lucan e il biondo allora grugniva, un cagnaccio rabbioso che gli sollevava addosso occhiate incattivite come pisciate sul proprio territorio, anche se poi Julius ridacchiava e lo baciava.
Clover era venuta tra quei morsi, umori che le erano colati tra le cosce e lungo il ventre e tra le tre dita che Lucan ancora muoveva dentro di lei, più lento, in un affondi profondi che seguivano il ritmo di una danza sconosciuta. Avanti, avanti, ruota, indietro, avanti, ruota e ricomincia.
Sentirla contrarsi tutta e singhiozzare, incapace di contrastare le ondate di piacere che la risalivano per tutto il corpo, basto a risvegliare nuovamente l'erezione di Julius.
Di nuovo eccitato spinse con una mano l'asta tra le labbra schiuse della ragazza. Le dita si allungarono dal pene al suo volto, in una risalita lenta, una carezza sulla guancia e dietro la nuca, fino a raccoglierla nel palpo, spingendola piano contro di sé, perché lo prendesse un po' di più. Ancora un po'. Ancora un po'. Un centimetro alla volta. Finché tutta l'asta non fu sprofondata nella bocca di lei, fino in fondo, strusciandole il glande sul palato e poi giù in gola.
«Così piccola...» sospirò, tirandola piano un po' più indietro, uscendo da quelle labbra perfette e gonfie e rosse e bagnate di saliva e del suo sperma, solo per affondare, se possibile, ancora di più, in un unico colpo che le tolse il fiato. La sua voce strozzata gli vibrava lungo tutta l'erezione, i suoni, i gemiti, i gorgoglii gli rimbalzava tutto tra le vene gonfie del pene, glielo faceva pulsare perfino di più e si sentiva crescere in quel vulcano di saliva che era la sua bocca.
Dita lunghe si intrecciarono a quelle dell'ex Peacemaker, stringendosi qualcuna delle ciocche bionde di Clover.
«Piano...» il respiro di Lucan sfilò sulla spalla di Julius, là dove si era avvicinato, fino a poggiare la fronte e guardare in basso, il volto della sorella e la sua bocca piena dell'erezione dell'amico. Tra qualche sprazzo di lucidità, Julius si prese il tempo di studiare lo sguardo del biondo, l'occhiata devota e attenta con cui si assicurava che la ragazza non soffocasse, che nei suoi occhi azzurri e languidi continuasse a rimanere accesa la fiamma di un'eccitazione che le bruciava dentro, che spingeva per uscire ed esplodere.
Il ritmo lo impose Lucan. Lento. Una tortura dolce che gli risucchiava l'anima oltre che l'uccello e che lo faceva tornare ad un ragazzino implorante al suo primo pompino. E nemmeno quando a quattordici anni aveva scoperto le gioie dei pompini e quelle del sesso, era stato così disperato e supplicante e Dio, se odiava quel biondo di merda e amava invece la bocca di sua sorella. E forse odiava un po' tutti e due. E li amava. Senza forse. Con prepotenza, con ogni fibra di sé e ogni brandello di carne che gli era rimasta attaccata addosso.
«Tienila» gli sussurrò Lucan all'orecchio. Gli ci volle un po' per capire a che diavolo si stesse riferendo, finché non lo vide lasciare la presa ai polsi di Clover.
Un rumore metallico, un "ch-clack" familiare che ricalibrava i movimenti del braccio metallico di Julius, e le dita fredde (finte) si sostituirono a quelle del biondo, stringendo di nuovo i polsi della ragazza e spingendoglieli contro la testiera del letto, intrappolandola in quell'intreccio di carne, metallo e intimità.
«Cazzo se sei bella» la voce gli era uscita rotta, male, la frase storpiata da un accento prepotente che solitamente riusciva a tenere a bada, ma che in quel momento incrinava e piegava ogni parola nelle declinazioni strascicate di chi era nato molto più a sud delle cupole di Rotten Apple o di Anghelos che ormai ospitava il cimitero più grande di tutto il mondo.
Reclinò il capo per strofinare la guancia contro la nuca di Lucan, rischiando che qualcuna delle ciocche bionde finissero incastrate tra gli ingranaggi del suo volto. L'altro si rialzò con una smorfia che avrebbe potuto definire sorriso, se solo uno come lui fosse stato capace di sorridere.
Con uno strattone impaziente si abbassò la lampo dei jeans, abbassandoli su un'erezione che finalmente liberava con un gorgoglio di sollievo. Era così dura che quasi gli faceva male e pulsava così forte che poteva sentirlo rimbombare fin nelle orecchie. L'asta era lucida del liquido preseminale che aveva aperto una chiazza bagnata anche sui boxer o sui pantaloni e con le dita zuppe degli umori di Clover, se la massaggiò.
Si sistemò meglio sulle ginocchia, indietreggiando di poco, quanto bastava per poter spingere l'erezione tra le sue cosce. E lei era aperta – già così perfettamente aperta, come se non desiderasse altro. Le passò il glande sul taglio tra le grandi labbra, su, giù, su, giù, scivolandole addosso senza mai penetrarla davvero, guardandola mentre ancheggiava e faceva presa con il retro delle ginocchia sulle proprie spalle per potersi sollevare, per avere di più.
Clover era bella, di quella bellezza fragile, di quella bellezza da vergine che lo aizzava sempre e lo aveva reso il fratello incestuoso e merdoso che non era, quello che quando era sobrio faceva l'amore con lei e la guardava godere attaccata al cazzo di Julius e quando era ubriaco la cercava in ogni fica che si scopava.
Affondò con la cappella gonfia, solo quella, trattenendosi e respirando a bocca aperta e, contemporaneamente, continuando a muoverle la nuca contro il pube di Julius. E quel bastardo di un senzacarne mugolava come una puttana in lacrime. Se non fosse stato perché sua sorella lo adorava, lo avrebbe ammazzato tanto tempo prima. Se non fosse stato perché in un modo molto, molto, fottutamente malato, forse – e che lo si aiutasse a dire forse – lo adorava anche lui (e adorava il modo in cui allungava il collo verso di lui per strusciarsi contro la propria nuca o il petto o qualsiasi parte del suo corpo, come un cane con il proprio padrone, e adorava come le proprie dita si incrociassero perfettamente a quelle di carne di lui e ai capelli di Clover ed entrambi lasciavano a lui ogni comando e decisione sulle spinte, su quanto profondo lei avrebbe dovuto prendere Julius, su quanto veloce lui le avrebbe dovuto scopare la bocca e adorava la smorfia di piacere dell'uomo e la guancia rigonfia di lui della sorella), se non fosse stato perché lui come Clover era l'unica cosa decente nella sua vita, gli avrebbe spezzato il collo con le proprie mani.
Lucan affondò ancora di più tra le cosce di Clover. La punta del glande l'aveva allargata e l'asta seguì in un suono umido, scivolando viscidamente nella sua intimità. Si sentì risucchiato, sprofondato completamente dentro di lei, in quella stretta di carne bagnata e bollente che gli si richiudeva addosso e che lo mandava in estasi.
Le strinse i fianchi con entrambe le mani, sollevandoli per poterle ruotare appena il busto, iniziando a penetrarla in spinte che mano a mano divenivano più veloci e più forti e di cui Julius aveva iniziato a ricalcare il ritmo. Dentro, fuori, dentro, fuori. E ogni volta che si rituffava in quelle cosce bianche e in quell'intimità bagnata riusciva ad andare sempre un po' più in fondo. Dentro, fuori, dentro, fuori, fino a perdere la testa, finché non sapeva più dove finiva lui e dove invece iniziava Clover, se i gemiti che riempivano la stanza erano i propri o quelli di Julius.
La sentì contorcersi e sentì le pareti vaginali farsi, se possibile, perfino più strette intorno alla propria erezione, chiuderlo e stringerlo così forte che l'orgasmo quasi glielo strapparono di dosso, mentre Clover urlava a bocca piena e il suo intero corpo veniva sconquassato dal piacere in un nuovo orgasmo. Venne quasi contemporaneamente a lei, seguito da Julius ed entrambi le riversarono dentro fiotti caldi di seme.
Stordito dall'orgasmo, per quel momento, in quella stanza che odorava di sesso e sudore e di loro, in quella fottuta base e su quei due letti singoli che avevano unito per crearne uno solo, Lucan si sentì schifosamente vivo e schifosamente bene.

Asilum TenSix, avevano scoperto non senza stupore, non taceva mai.
C'erano sempre bisbigli che correvano tra i corridoi, sbuffi e sospiri fatti d'aria o rumori che si trascinavano appena dietro le pareti, come se fossero state abitate dai fantasmi. Inoltre sopra ogni suono, c'era il cuore pulsante della base, il computer centrare le cui ventole spazzavano aria cercando di mantenere la cpu ad una temperatura sopportabile. Il calore che si respirava nella sala dei server avrebbe potuto bruciare i polmoni con appena un paio di boccate.
Julius e i due fratelli si erano infilati sotto le coperte di quello che ormai era da considerarsi un letto solo. Il seme dei due uomini le si era seccato tra le gambe, tra i seni e, in generale, ovunque fossero riusciti a venire. L'avevano presa fin quasi a sfiancarla ed ora, sdraiata nel mezzo, combatteva contro la stanchezza.
Avrebbe dovuto dormire. Riposare. Lasciare che arrivasse un nuovo domani, ma il suo cervello non aveva smesso di pensare.
Completamente nuda, aveva le gambe incastrate tra quelle più lunghe e muscolose di Julius e Lucan. La schiena premeva contro il petto ampio dell'ex Peacemaker e il suo braccio sano era stretto alla vita, allacciandole le dita al fianco in una presa che, il mattino successivo, le avrebbe lasciato i segni del suo passaggio. Lucan le era di fronte, era l'unico dei tre ad essersi addormentato, crollato sotto un peso che Clover aveva solo immaginato – c'erano paure inconfessate negli occhi di suo fratello, dubbi, problemi, oh aveva così tanti problemi – e con il volto premuto al seno di lei, come un bambino cullato dalla madre, aveva braccia abbastanza lunghe da poterli tenere abbracciati tutti e due. Lei e Julius.
«Dovresti dormire.»
Era stato il senzacarne a parlare, la voce era colata con dolcezza direttamente nel timpano della ragazza e la mano si era aperta meglio al suo ventre, schiacciandosela addosso per incollarsela sulla pelle che ancora gli era rimasta. Non era alto quanto Lucan, ma si difendeva bene, superava abbondantemente il metro e ottanta e gli bastava curvarsi appena sul corpicino ben più piccolo di Clover, per poterla ingoiare sotto di sé.
Lei si mosse appena, ruotando di pochissimo il volto, per potergli rivolgere uno spicchio dell'occhio azzurro.
«Senti chi parla.»
«Io sto già dormendo, è solo che parlo nel sonno.»
Clover rise sottovoce e Julius le stampò un bacio sulla guancia.
«A cosa stai pensando?» le chiese.
«A Wonderland.» lui non se ne stupì, dopo quanto aveva raccontato loro, non riuscire a smettere di pensarci era normale e la più piccola riprese «Avrei voluto saperlo... avrei voluto... non lo so, forse non sarebbe cambiato niente.»
«Per Lucan di sicuro.»
«Però, questa volta, avrei dovuto decidere io, non Lucan.»
Sebbene invisibili, Julius riuscì a sentire il peso di quelle parole e allora sì, forse sarebbe cambiato tutto. Non loro o quello che avevano avuto, quello no – quello mai, volle credere – ma come lo avessero portato avanti, forse sì.
«Mi dispiace.»
Clover scosse il capo, ruotandolo un po' di più. Aveva gli occhi lucidi di stanchezza, ma l'ex Peacemaker vi vide uno sguardo sveglio, acuto: «Dovrebbe spaventarmi eppure non è così. Credi che sia normale?»
Julius le baciò il collo, un bacio appena sotto l'orecchio, uno più in basso e un'altro nell'incavo con la spalla; ad ogni bacio premeva un po' più forte, per imprimerle la propria bocca nella carne e lasciarle addosso cicatrici invisibili.
«Credo che tu sia una ragazza coraggiosa.» ne era sicuro, anzi «Inoltre Lucan ed io siamo qui apposta per proteggerti, non permetteremo mai che ti succeda qualcosa.»
Clover sollevò le dita a stringere la mano di lui che la toccava al ventre, mentre con la gemella accarezzava delicata i capelli di Lucan.
Julius, invece, passò a mordicchiarle la spalla. Al sapore della ragazza si mescolava il proprio e quello del biondo, dello sperma che le si era seccato addosso e che solo il mattino seguente avrebbe lavato via. Erano morsetto dati con flemma, per coccolarla tra le proprie braccia, anche se poco per volta la propria erezione era andata crescendo ed ora le premeva semi eretta contro le cosce e tra i glutei.
Clover emise un sospiro leggero a occhi socchiusi, quasi sognanti. La sentì tremare appena, forse per l'anticipazione e allora continuò a parlarle contro la pelle e premerle l'asta contro le natiche «E quando sarà tutto finito, vi porterò a vedere l'oceano».
Lei emise un versetto sottovoce pieno di sorpresa, sgranando occhi che dell'oceano ne avevano il riflesso. Quelli di Julius, invece, erano quasi neri, di quel nero che non era fumo, non era petrolio, ma era più immensità. Di quel nero che faceva paura, ma nonostante tutto era bello e profondo e infinito.
«Davvero? E com'è?» lo sguardo di Clover si illuminò al solo pensiero. Nessuno conosceva la sua reale età, ma avevano tutti presunto che fosse nata dopo la costruzione delle cupole, perché non aveva mai visto il cielo – quello vero – e non sapeva che esistessero distese d'acqua che si perdevano all'orizzonte, acque così blu da farti venire le lacrime agli occhi.
Se ancora l'oceano, il cielo e gli alberi (quelli veri, dalle fronde verdeggianti, non quella merda rachitica e patetica che di tanto in tanto si scavava un buco nell'asfalto e veniva immediatamente recisa) esistevano oltre il grigiore traslucido delle cupole, nessuno lo sapeva. Jacob X profetizzava di sì e allora aveva creato l'Asilum TenSix, il Santuario assicurava che tutto fosse morto e che le cupole fossero la salvezza (Lode a King che nella sua benevolenza le aveva inventate per proteggere l'uomo fragile, lode a Royal che nella sua ricchezza le aveva fatte realizzare), la verità, probabilmente, si trovava nel mezzo.
«È senza fine.»
«Mi stai prendendo in giro?»
«No, te lo assicuro. Il mondo, quello vero, non lo schifo che ci è rimasto, ti sarebbe piaciuto. L'avresti amato» gli si conficcò una spina nel cuore a realizzare quanto fosse vero. C'erano cose, meraviglie, che Clover non avrebbe mai potuto conoscere lì dentro e di cui lui se ne era fregato alla grande finché non le aveva perse per sempre.
Prima aveva perso gli oceani, quando le fondamenta delle cupole erano state buttate giù – andavano avanti per chilometri e chilometri, ma ad un certo punto sarebbe riuscito a raggiungere il punto opposto della circonferenza –, poi poco per volta il cielo era stato oscurato e la cupola si era mangiata anche quello, l'aveva estromesso dalla loro vita ed era stato attivato il programma di meteo virtuale (peccato averlo inceppato sul file pioggia acida di merda per quelli che, come loro, vivevano nei bassifondi, solo i ricchi avevano sprazzi di sole, seppur finto), infine gli alberi avevano iniziato a morire e quelli rimasti erano cadaveri che si spezzavano con un solo sguardo o creature ibride che colavano catrame.
«Allora promettilo, prometti che mi porterai a vederlo insieme a Lucan.»
Julius le morse piano il lobo dell'orecchio e tornò a spingersi con il bassoventre sul suo fondoschiena, in affondi pigri che le scivolavano appena tra i glutei, senza penetrarla davvero.
«Croce sul cuore» le soffiò tra i capelli.
Promesso.

«No.»
«Porca puttana se sei duro di comprendonio.»
«Ho capito benissimo, la risposta, però, rimane sempre no
«Perché no?»
«Perché non abbiamo bisogno di lui. E perché ha la faccia di un cretino e, un'altra oltre la tua, sarebbe troppo da sopportare perfino per me.»
«Certo, perché tu sei questo gran esempio di pazienza, eh.»
«Non ti ho ancora strappato i coglioni, giusto?»
«Ma me li hai sicuramente scassati!»
La colazione era stata una pantomima ridicola.
Jacob aveva dato loro accesso alla XIII sezione, dove il primo stanzone era stato adibito a mensa. Li aveva invitati a mangiare al suo tavolo e, come già il giorno prima, seduto accanto a lui avevano ritrovato Tyron e il suo sorrisetto da schiaffi. Beveva una tazza di tea al limone macchiato di latte che per qualche buon minuto Julius e Lucan avevano guardato con orrore, prima di decidersi a chiedere caffè. Amaro.
Clover, invece, aveva chiesto di provare l'abbinamento tea e latte e aveva scoperto che le piaceva.
Era stato in quel momento di calma che Jacob aveva chiesto loro se li avessero aiutati. Il piano che li coinvolgeva era semplice (sopravvivere fino alla fine era la parte più complicata) e Lucan aveva grugnito qualcosa che era suonata come una risposta affermativa in mezzo ad un mare di insulti e minacce all'uomo. Il problema si era presentato quando Jacob li aveva avvisati che Tyron li avrebbe accompagnati – Julius non vi aveva visto problemi, Lucan, ovviamente, sì.
«Senza offesa lattante» Lucan puntò indice e medio uniti in direzione del giovane «potresti anche essere black panther per quel che me ne fotte, ma tra i piedi non ti ci voglio.»
Lui doveva essere stato troppo giovane per capire la citazione e si limitò a ghignare, come se avesse saputo che la decisione dopotutto non spettava al biondo.
«E chi cazzo se ne fotte di quello che vuoi tu» riprese Julius.
«Chiudi quella fogna, faccia di latta
Tyron ingollò gli ultimi sorsi di tea, riappoggiò la tazza sul tavolo e sbadigliò senza grazia in faccia ai due uomini che ancora perdevano tempo a litigare. Si stiracchiò, mentre, rumorosamente, spostava la seggiola di ferro più vicina al tavolo; reclinò il busto in avanti, ad avvicinarsi all'unica ragazza del gruppo, accomodata di fronte a lui.
Di colpo, Julius e Lucan tacquero, rivolgendogli occhiate irritate che già parlavano da sole. Ognuno dei due aveva preso posto ad un lato di Clover e, come se si fossero sincronizzati, incrociarono le braccia sulle spalle di lei, tirandola indietro.
Tyron represse una risata divertita.
«Tu invece, baby doll, che dici?»
«Come cazzo l'hai appena chiamata?» ringhiò Lucan.
«Pigliati un amplifon, grandpa
La risposta, ovviamente, non gli piacque.
Lucan fece per alzarsi, la mano di Clover, però, lo fermò ricercando le sue dita, per tenerle a sé, vicino, affinché non si allontanasse per prendere a pugni il più giovane. Gli accarezzò il volto con uno sguardo dolciastro e si rivolse, infine, a Tyron.
«Hai anche tu il marchio di Wonderland?» gli chiese. Che quelli che segnavano lei e i suoi due compagni fossero marchi di Wonderland lo aveva deciso da sola, dopo che, finita la lunga doccia calda e (per cui non c'erano stati scaldabagni scassati di cui preoccuparsi) aveva risistemato i progetti e i disegni nella scatola di latta, per riconsegnarla a Julius – lui non l'aveva quasi guardata, l'aveva buttata in un borsone che Jacob gli aveva consegnato pieno di armi ed era tornato ad ignorarla.
Il sorriso di Tyron si accentuò, mentre Julius e Lucan si scambiarono un'occhiata veloce e confusa – che mutò appena e male l'espressione incazzosa nei tratti del biondo.
Abbassò la zip della giacca militare, si afferrò il colletto della maglia che indossava al di sotto e lo tirò in basso in uno strattone che gli scoprì il pettorale destro lucido e la pelle scura. Ora che non c'era più pittura ad imbrattarlo, più che di bronzo, la sua pelle era del colore del caramello e quasi metteva appetito solo a guardarla.
Tracciato con tagli di una lama sottile e affilata, qualche centimetro sopra il capezzolo, gli era stato disegnato la sagoma di un cilindro sul cui nastro era riportato il numero 10/6.
«Al tuo servizio, Alice» cantilenò.
Clover gli sorrise e si voltò verso Lucan.
«È uno di noi» l'aveva già accettato, con tutta la facilità del mondo e non aveva nemmeno dovuto pensarci.
Lucan deglutì, sentendo un nodo alla gola che, improvvisamente, gliel'aveva chiusa, lasciandolo senza respiro, a boccheggiare alla ricerca di aria – alla ricerca di un prima, quando non doveva dividere l'attenzione della ragazza, ma era sua, tutta inesorabilmente sua.
«E chi cazzo se ne frega, Clò. Manco lo conosciamo, per quel che ne sappiamo può essere il succhiacazzi di Royal e non vedere l'ora di farci finire tutti in trappola come topi.»
«Per quello che vale, c'è un solo cazzo che succhio e non ho manco mai visto Royal.»
Julius soppresse a stento una risata davanti alla schiettezza arrogante del più giovane, un marmocchio che di certo di palle ne aveva. Gli sarebbe stato quasi simpatico, se solo avesse guardato meno Clover e avesse smesso di sorridere come uno stronzo.
«E ora che abbiamo avuto la conferma che sei gay, dovrebbe cambiare qualcosa?» insistette Lucan.
Rimasto per tutto il tempo in silenzio, Jacob decise finalmente di inserirsi nel discorso e dargli finalmente la fine che meritava.
«Ho annotato il tuo risentimento, White, ma Tyron verrà comunque con voi. Siete comunque destinati a stare insieme, uniti dalla stessa matrice. In un modo o nell'altro finireste per ritrovarvi, com'è avvenuto tra te e Julius e come è avvenuto con il quadrifoglio
Il solo fatto di sentirgli pronunciare il proprio cognome, sembrò far scattare qualcosa nella testa di Lucan che, per un attimo, si inceppò, senza più dire nulla.
Sfarfallò le ciglia, borbottando un «fanculo» dal retrogusto infantile e buttò la schiena indietro, pesando contro lo schienale.

Per quanto fosse sicura e all'avanguardia, l'Asilum TenSix non era casa loro.
Non era come la tana del bianconiglio e perfino Julius, con il suo passato da militare e mercenario, ci stava stretto.
Per Clover, invece, era tutto l'opposto. Era troppo grande e i corridoi tutti uguali, gli stanzoni dalle porte sbuffanti, l'aria filtrata e tutti quei volti sconosciuti, le facevano sentire la mancanza delle quattro pareti dell'open space di casa o del loro unico letto, dell'odore umido per i tubi che perdevano sempre e quello di Lucan e Julius che aveva invece impregnato ogni muro ed ogni mobile e la faceva sentire al sicuro.
La base di Jacob X era, invece, più simile ad una caserma e la maggior parte di loro aveva servito come militare proprio sotto il comando di Jacob.
L'uomo aveva lasciato loro armi (un paio di K-Bulls che Julius aveva particolarmente apprezzato, un tranciamostri simile a quello di Lucan e una pistola di calibro più piccolo anche per Clover, mentre Tyron si era portato dietro le proprie), mezzi di trasporto e un palmare su cui erano state scaricate tutte le informazioni che avevano raccolto su Royal, sui god program e sulle Torri del Millennio. Quanto invece sapeva ancora su di loro, lo aveva voluto raccontare personalmente a Lucan, chiamandolo nel proprio ufficio e quando l'uomo era uscito il suo volto era pallido e lo sguardo perso.
Non aveva parlato per tutto il tragitto verso casa, nè una volta arrivati. Si era chiuso in camera, aveva recuperato la valigetta per la dreamez e se ne era sparata in quantità industriale dritto nei nervi del collo.
Clover era rimasta a guardare la porta chiusa, mentre Julius aveva rinunciato da un pezzo a preoccuparsi di quello che poteva passare per la testa del bastardo e aveva trasferito tutte le informazioni del palmare sui computer di casa.
Tyron, dal canto suo, aveva trovato un posto per sé sul divano da cui guardava l'uomo lavorare.
«Da quello che ne sappiamo, esistono al mondo sette cupole» iniziò a spiegargli, allungando il braccio ad indicare da lontano il disegno olografico che si era aperto, proiettato in verde su sfondo nero, davanti ai loro occhi.
«Sette, il mio numero fortunato.»
«Ogni cupola è sorretta da due torri gemelle, identiche alle Torri del Millennio che si trovano qui, nella downtown di Rotten Apple. Ognuna di esse è collegata all'altra e, anche se non abbiamo mai capito come fosse possibile, si forniscono energia l'un l'altra.»
Julius fece scorrere il modello della cupola, scomponendolo sino a farsi strada tra le vie e attraversare la città verso le zone più lussuose del centro, dove i grattacieli si sprecavano e la pioggia cessava d'esistere. Si posizionò di fronte alle Torri del Millennio, che spiccavano come una coppia di falli bianco avorio.
«Se si forniscono energia l'uno all'altra a che cazzo serve distruggerle solo qua?»
«Quando le cupole sono state create, tutti hanno pensato che Anghelos fosse la cupola pilota a causa degli esperimenti. Ma per controllarli serviva una seconda postazione, una base centrale da cui tutti gli ordini potevano partire, in cui tutto poteva essere controllato.»
«Rotten Apple» si rispose da solo Julius.
«Rotten Apple» confermò Tyron.
Clover abbandonò la porta chiusa della camera e con un sospiro sconsolato si trascinò verso i due. Aveva ascoltato in silenzio la loro conversazione e quando prese posto accanto all'ex Peacemaker allungò l'indice a sfiorare una cartella di file che si aprì scalzando l'ologramma.
«Che... che cos'è?» chiese l'uomo, perplesso.
Una pioggia di 0 e 1, di segmenti senza apparente senso, di punti e tacchette, invase l'intera parete, scorrendo e scorrendo e scorrendo, come un fiume in piena. Pagine e pagine di un codice che nessuno dei tre aveva mai visto prima di quel momento.
«Dove l'hai trovato?» Tyron si era alzato dal divano e aveva raggiunto in fretta la poltrona girevole di Julius, poggiandosi con entrambe le mani sullo schienale per piegarsi in avanti, adombrando il più grande con la sua altezza. La domanda, però, era rivolta a Clover.
«Era lì» fu l'unica risposta che le venne in mente. C'era. L'aveva visto. E aveva avuto l'impulso di premerlo e aprirlo. Ed ora non riusciva a smettere di guardare quella cascata di simboli e numeri che sembrava formare un'intera melodia che, tuttavia, lei non riusciva ad afferrare. La percepiva, però, da qualche parte, come una nenia lontana. Come un ricordo.
Immobile, aveva le labbra schiuse e gli occhi fissi. Il respiro si era fatto così leggero che Julius iniziò a preoccuparsi.
«Clover?»
Nessuna risposta.
Negli occhi azzurri, risplendeva la luce verde fluorescente del codice.
«Clover!» Julius spinse indietro la propria sedia, spingendo nel contempo anche Tyron e afferrò la ragazza per le spalle, scuotendola con forza chiamandola ripetutamente «Clover! Hey, che diavolo ti prende? Clò?»
Quando la figura prestante dell'uomo si frappose tra sé e il codice, Clover tornò a battere le ciglia e la sua coscienza sembrò riaffiorare a galla.
«Cristo, mi hai fatto venire un colpo! Che è successo?»
«Io...» si passò la lingua sulle labbra, provando prima ad assaggiare il sapore di quello che le era appena scivolato tra i pensieri, della convinzione appena sbocciata che rotolò fin oltre la punta della lingua e si fece voce «ho visto la Regina.»
«Tu cosa
«So come distruggere le Torri e come far tornare il cielo

Avrebbero avuto tempo tre giorni.
Tre giorni sufficienti a prepararsi, a sfondarsi di dreamez o a raccomandare l'anima a qualsiasi Dio preferissero.
Tre giorni in cui Lucan parlò poco e bevve tanto, ma almeno fu sempre presente, fino alla notte che avrebbe preceduto l'assalto.
Era sobrio. Sveglio. Incazzato come sempre, triste come non mai.
Poggiato con i gomiti alla ringhiera del minuscolo balconcino di ferro, era stato raggiunto da Clover che si era infilata sotto il suo braccio, per sistemarsi davanti a lui e guardare la notte piovosa dei bassifondi di Rotten Apple. Uno spettacolo degradante che di piacevole non ne aveva nemmeno l'odore.
«Ti senti meglio?» gli chiese, tirando la testa indietro per poggiare la parte superiore della nuca contro la base del collo di Lucan e guardargli il mento dal basso. Aveva un mento arrotondato, gli angoli della mascella appuntiti e le guance leggermente scavate. Di quanti anni avesse in realtà non l'aveva mai capito, trenta, quaranta, alle volte le sembravano molti di meno, mentre lui, invece, se ne sentiva sempre molti di più.
Lucan la cinse in un abbraccio.
«Ti ho mai raccontato di mio fratello minore?» le chiese. Sapeva già di non averlo mai fatto. Non aveva mai raccontato a nessuno del proprio passato, della propria vita prima della cupola, quando perfino uno come lui era stato bambino e aveva riso una volta o due.
«Non sapevo ne avessi uno.»
«L'ho avuto solo per nove mesi, il tempo che mia madre lo mettesse alla luce ed erano morti entrambi.»
«Oh. Mi... mi dispiace.»
«Di che? Non è stata colpa tua. Non è stata colpa di nessuno.»
«Ti sarebbe piaciuto non restare figlio unico?»
Lucan sbuffò una risata imbruttita dalle labbra storte e dalla smorfia che gli aveva arricciato il naso, ma non rispose.
Si piegò verso il basso, incrociando le braccia davanti al busto di Clover e affondando il volto al suo collo, per respirare di lei.
«Quando tutto sarà finito, andiamo a vedere l'oceano insieme a Julius. Se non manterrà la promessa, ci penserò io ad aprirgli in due il culo» le sospirò addosso.
Clover sorrise.
«Eri sveglio.»
«Mhm» confermò.
«Quando sarà tutto finito,» riprese lei, ruotando su se stessa per sistemarsi di fronte al fratello. Si sollevò in punta di piedi, costringendolo a sollevare anche il capo, per guardarla ed ammirarne gli occhi azzurri, lo sguardo risoluto, il sorriso morbido e il volto bello quanto l'aurora «prometti solo che ci amerai ancora.»
Lucan ruotò gli occhi al cielo, ma dovette sforzarsi per apparire disgustato, anche se parole come amore non rientravano nel suo vocabolario.
«Te forse. Il senzacarne può crepare, per quel che mi riguarda.»
Clover scosse il capo, onde dorate si mossero sulle sue spalle esili. Si aggrappò al collo dell'uomo, chiuse gli occhi e lo baciò come fosse stata la prima volta, come fosse stata l'ultima, come se mai l'avesse amato tanto come in quel momento.
Lucan la strinse a sé con tutte le proprie forze, abbracciò le sue curve di ragazza e baciò la sua bocca di donna. La strinse fino a sentirne le fragili ossa scricchiolargli addosso, il suo seno schiacciarsi al proprio petto, pizzicandolo con i piccoli capezzoli che turgidi spuntavano da sotto la maglia e le sue labbra schiudersi per concedere l'accesso alla propria lingua. La strinse, ricambiò il suo bacio e alla sua bocca rossa e carnosa affidò il proprio sospiro.


Quando sarà tutto finito, promettimi solo che quanto accaduto non ti avrà cambiata.